Cap. II: I primi atteggiamenti ostili

Con l’arrivo in città dei Gesuiti, nel 1591, iniziarono i primi atteggiamenti ostili nei confronti degli Ebrei: si propose di assegnare le case di abitazione degli Ebrei vicino a case immorali; il beccaro violò l’impegno di fornire carne agli ebrei allo stesso prezzo dei cristiani, e così essi furono costretti ad accettarne l’aumento (1594); sempre nello stesso anno, arrivò anche per loro, come in altre parti d’Italia e d’Europa, la calunnia del sangue, sempre nel 1594. Così lo storico Ghilini descrive l’episodio:

“Seguì di poi una grande sceleratezza dei Giudei commessa in Alessandria; imperocchè circa al fine del mese di marzo, nel qual tempo costoro erano intenti ad apparecchiare gli azzimi per potere, conforme all’usanza loro, solennemente celebrare la Pasqua, Simon Lazzaro, uno di questi ebrei, uscito molto per tempo di casa, e trovato un fanciullo d’età di quattro anni, cristiano, chiamato Giovan Battista Bissazzi , lo menò di nascosto per mezzo di lusinghe e carezze in casa sua, e poscia avendolo ridotto nella cantina, li tagliò la vena della gamba destra gamba, e raccolse il scelerato e manigoldo Giudeo tutto quel sangue per uso dei suoi azzimi; onde in fanciullo, vedendosi trattare a quel modo, e, molto più dall’orrore del sangue che dal dolor della ferita, si mise a piangere dirottamente e con grandi gridi così alti che egli fu sentito da un frate e da una donna che a caso passavano per quella strada.

Questi,…entrarono nella casa di quel Simone e nella cantina trovarono il povero e infelice fanciullo che, ferito e quasi esangue, stava dirottamente piangendo e subito lo ridussero fuori di quel luogo; di poi, ne diedero parte al Padre Inquisitore di San Marco, il quale, per essere gravemente ammalato, diede ordine al suo vicario che di questo misfatto pigliasse diligente informazione. Pigliò egli seco il fanciullo e lo condusse alla casa dell’ebreo che già si era in altra parte ritirato e non avendovi trovato persona alcuna, fuor che una serva, rimase il negotio per allora sospeso; ed essendosi poi o per trascuraggine dei parenti di quel fanciullo o per altro rispetto, differito il metter in chiaro questo delitto, il tutto fu posto sotto silenzio”

La pagina del Ghilini presenta i classici stereotipi della calunnia del sangue: il bambino di quattro anni che va, da solo, per la città sul far del mattino, l’ebreo che lo attira con carezze e lusinghe, l’appartarsi in un luogo nascosto, il taglio delle vene, l’uscita e la raccolta del sangue, il pianto udito da un frate e da una donna ecc.

Fortunatamente, a differenza di altre parti d’Italia e d’Europa, ove questa assurdità scatenava feroci rappresaglie, massacri e inaudite violenze [11] , in Alessandria non causò nessun danno agli Ebrei. Tutto fu posto sotto silenzio

L’aumento del numero degli Ebrei, il loro potere economico provocò contrarietà nella popolazione (o in parte di essa) ma soprattutto nel clero. [12] Ma i Vitale, e il loro denaro, erano troppo necessari alla città perché si prendessero decisioni nei loro confronti [13]

Furono questi, anni difficili per gli Ebrei (siamo in epoca di Controriforma): essi videro aggravarsi la loro situazione per la vigilanza del Clero sulla loro vita, furono limitate alcune concessioni fatte in precedenza: l’obbligo del Ghetto, l’obbligo del segno di distinzione, divieto di avere servitù cristiana; l’immunità ai Cristiani che si rendevano colpevoli di rapimento di bambini Ebrei per battezzarli e per non più restituirli al desolati genitori. [14]

Gli Ebrei alessandrini, minoranza, senza potere politico, tentarono di mitigare le posizioni del clero accettando di cooperare, nel 1651, nel 1661, nel 1666, all’arredamento della strada su cui doveva passare la principale processione: risulta che lo fecero, ma questo non bastò.

Nel 1684 il Cardinal Nunzio Milini, a nome del Papa Innocenzo XI Odescalchi, sollecitò il Governo di Madrid ad espellere dal Ducato di Milano gli Ebrei di Alessandria (e quelli di Lodi). L’anno successivo (7 giugno 1685) lamentò il grave «pregiudizio che si conseguiva di sua propagazione verso i Cattolici ».

Le autorità spagnole dietro ordine del Re, dovendo tener conto delle richieste della Chiesa e del bisogno di denaro che gli Ebrei garantivano, delegarono la questione alle Autorità locali di Alessandria e di Lodi, specialmente per il riesame dei diritti dei Vitale.

Si fronteggiarono così, due opposte tendenze:

– una, disposta a non curarsi dei diritti acquisiti dagli Ebrei, e cacciarli dalla città, accusandoli di ogni sorta di delitti, anche di un possibile tradimento a favore della Francia, presente nel Monferrato [15] . Neanche un possibile ghetto era da auspicarsi: tutti riuniti avrebbero potuto ordire qualche trama contro la città: meglio sparsi gli uni lontani dagli altri, sotto la vigilanza di tutti. Occorreva, poi, verificare se avessero mancato alle clausole della condotta, avendo permesso l’arrivo di elementi nuovi come le famiglie Pugliese ed Amar: motivo che da solo poteva giustificare la loro espulsione, senza la restituzione nemmeno del danaro. Che dire poi delle estorsioni e dei guadagni illeciti fatti sopra i cittadini ?

– l’altra, più accomodante, o forse più realistica, che, riconoscendo l’utilità economica della presenza degli Ebrei nella città nel far fronte al persistente disagio del popolo e alle necessità dei molti soldati di presidio alla città così importante per la difesa del Ducato, voleva la continuazione della permanenza degli Ebrei in Alessandria.

Le Autorità di Alessandria vollero anzitutto chiarire la posizione degli Ebrei in base ai documenti: come cioè risultassero i privilegi degli Ebrei e quali fossero. Fu incaricato di questo il dottor Conti, che, in una relazione, previo esame dei documenti presentati dagli Ebrei stessi, ne riconobbe la validità [16]

Al di là di tali riscontri legislativi, al Senato di Milano che aveva chiesto il parere della Città, i reggitori di Alessandria risposero, esaminando il problema con lucidità e realismo. Premesso che la città non dimenticava che le sue origini erano iniziate sotto gli auspici della S. Sede Apostolica e quindi tutta l’azione era sempre stata improntata a riverenza alla Fede; che gli Ebrei erano stati accolti non per dar loro un asilo, ma a beneficio del popolo; che le ragioni per trattenere gli Ebrei sussistevano sempre, anzi si erano aggravate, si evidenziava come Alessandria confinante con Stati di vario dominio, doveva essere sempre presidiata e pronta alla difesa. In caso di guerra, la gente del contado si riversava nella città e molti erano i miserabili che abbisognavano di denaro: il Monte di Pietà, che serviva solo in giorni fissi e per somme limitate, non poteva rispondere da solo alle esigenze di una tale massa di persone, mentre l’esperienza aveva dimostrato l’utilità degli Ebrei che supplivano all’impotenza del Monte, imprestando su pegni.

L’instabilità delle stagioni, poi, causava danni alla campagna, riducendo i profitti dei contadini, e li obbligava ad aver bisogno di denaro: l’aiuto che trovavano negli Ebrei, portando pegni anche modesti, permetteva loro di sopravvivere senza essere obbligati ad alienare immobili od a mostrare pubblicamente le proprie miserie: era un aiuto che solo dagli Ebrei potevano trovare

Per di più, gli Ebrei servivano come moderatori nei prezzi, ponendosi come concorrenti ai mercanti cristiani, che altrimenti avrebbero agito in regime di monopolio, imponendo prezzi esorbitanti per le merci. Da tale concorrenza “si riconosce un utile non ordinario, e questo si accresce se si considera che i poveri hanno comodità di provvedersi subito di abiti, trovandoli pronti con ogni vantaggio, permutando o dando a conto del prezzo ciò che hanno di lacero o non serve a loro, e pur questo esercizio di strazzaruolo o patero tanto necessario in una Città e Provincia per la plebe e povertà non sarebbe forse praticabile da altri o almeno seguirebbero grandissimi abusi e stenti.” [17]

Gli Ebrei commerciando merce usata, ma trasformata dalla paziente opera delle donne ebree, e quindi vendibile a prezzi minori, e spesso, inoltre, ceduta a credito, o col pagamento a rate, e talora col cambio con altra merce non nuova, risultavano di estrema utilità al popolo, e con soddisfazione delle autorità, ma non certo ai commercianti cattolici, le cui voci di lamento erano raccolte da quanti avversavano gli Ebrei anche per i sistemi loro particolari di questa forma di negozio.

Ma, il principale motivo per trattenere gli Ebrei era che essi provvedevano alle urgenti necessità militari: i soldati dovevano essere pagati ed a tempo. Siccome non sempre la Città aveva danari in cassa sufficienti, trovava appoggio pronto nelle casse degli Ebrei, che tra l’altro permettevano anche ai soldati di trovar altro danaro seppur dietro pegno. I soldati, ricordavano i Reggitori della città, andavano pagati subito nel timore di saccheggi e di ribellione che avrebbero posto in pericolo la sicurezza della Città.

«Oltre le suddette considerazioni – finiva il documento – non può negar la Città che non habbi ricavato continuamente dall’Hebrei qualche sollievo, massime quando erano più facoltosi, o d’imprestiti di denari senz’interesse, forse per l’intiero non restituiti, o di mobili provvisti per alloggi, oltre che essi sono pronti a servire tutti con qualche puntualità e generalmente non si sentono doglianze contro di essi ». [18]

Prevalse l’idea di allontanare gli Ebrei dal centro riducendoli ad abitare in altra parte della città, che però non fosse così tanto lontana dal centro da inceppare il loro commercio, ma che li tenesse separati il più possibile dal convivere coi Cristiani.

Carlo II, dopo lunghe consultazioni, visto che le autorità civili della città cercavano di scaricarsi da ogni responsabilità rimettendosi nella deliberazione al volere delle superiori autorità, decise che gli Ebrei restassero in Alessandria, ma, fossero sottoposti a quanto stabilivano le leggi ecclesiastiche, e cioè che portassero il segno distintivo, abitassero in un rione speciale chiuso come in un Ghetto, distinto dalle case dei Cristiani, che non potessero tenere nelle proprie case servitù cristiane: in caso di violazione di tali disposizioni potevano esser banditi da Alessandria.

Pertanto, ordinava Carlo, le autorità provvedessero, dando comunicazione al Nunzio di quanto si faceva.

Il ghetto in Alessandria non fu possibile farlo, [19] perché non si riuscì a trovare un rione che li contenesse tutti: erano non meno di duecentocinquanta, a cui dovevano aggiungersi quelli di Lodi, che circa una ventina, furono obbligati a portarsi in Alessandria, non potendosi impiantare un ghetto per un numero così ridotto.

Questa situazione ebbe un riflesso nella popolazione della città, che prese un atteggiamento ostile, verso gli Ebrei tanto che il Senato di Milano, sollecitato dall’Università degli Ebrei di Alessandria, ordinò al Podestà dott. Agostino Ucedo nel 1686 di prendere dovuti provvedimenti a tutela degli Ebrei. E difatti questi provvide subito con un Editto a stampa (17 settembre 1686) da pubblicarsi tanto in città quanto nelle terre del Contado in cui si vietava « di molestare né con parole né in altro modo alcuno di detta Università, nemmeno turbarli nel libero esercizio del loro traffico » affinché, con tutta sicurezza, potessero continuare i loro negozi nelle loro case e botteghe e negli altri luoghi nella stessa maniera con cui erano stati soliti a fare nel passato.


Note

[11] Famoso fu il caso di Simone (o Simoncino) da Trento: Bernardino da Feltre nelle sue infuocate prediche antiebraiche aveva profetizzato che prima di Pasqua sarebbe venuto alla luce un atto di tremenda malvagità da parte degli ebrei. La domenica di Pasqua del 1475, fu rinvenuto in un canale di scolo il cadavere accoltellato di un bambino cristiano di poco più di due anni, Simone Unverdorben. I maggiorenti ebrei furono subito messi in prigione quali sospettati di infanticidio; respinsero l’accusa, facendo anzi il nome del cristiano che aveva commesso il delitto. Sotto tortura, alla fine, un ebreo di 80 anni cedette e “confessò”. Tredici ebrei furono giustiziati 3 mesi dopo e l’intera comunità espulsa. Simone fu fatto santo e per secoli fu oggetto di venerazione popolare.

[12] Nel 1574, l’11 settembre, il vescovo di Alessandria dette istruzioni circa lo stabilimento del ghetto:

“Ottavio Paravicino per la grata de Dio e della santa fede Apostolica vescovo d’Alessandria.

Essendosi per li molti inconvenienti e scandali che nascono ogni giorno risoluto conforme alle bolle dei sommi pontefici levare il commercio che hanno li ebrei con li cristiani nel vivere e mangiare set habitare mescolati et essendosi col parer della magnifica città nostra determinato il luoco et accio veghino che il tutto si tratta con carità christiana, per il presente nostro editto comandiamo sotto le pene qui contenuti a tutti li detti hebrei habitanti in detta città che al principio di marzo prossimo 1585 debbano sgombrare delle case dove sono et andare ad habitare nel luoco da noi a loro assignato che è contro alli portichi vecchi di detta città, il quale dopo essere habitato da le loro famiglie se non sarà bastante se gli daranno li portichi sudetti.

Et ordiniamo alli christiani habitanti in dette case che per il medesimo tempo gli debbono sgombrare, et alli patroni di quelli che hora abitano gli hebrei che da marzo in là non gli le affittano per da quel giorno vogliamo corra il fitto a li hebrei del detto luoco destinatogli sotto pene a li hebrei di scuti cinquanta per famiglia contravenendo, e de scuti venticinque alli christiani che non daranno le case sgombrate e sotto pena de escomunicazione alli christiani in subsidio e della perdita del fitto a qual si voglia christiano che dal primo di marzo inante affittarà casa ad essi ebrei fuori di detto luoco destinatogli.”

V.: M. Luzzati, Il ghetto ebraico, Firenze, Giunti-Dossier 1989, p. 10.

Gli ebrei si opposero adducendo il fatto che il ghetto proposto era troppo angusto ed era situato in una zona malsana, periferica, poco frequentata e quindi poco redditizia per i loro affari; si scelse infine “ una contrada de carreggio qual è ancora frequentata e messa a sboccare nella strada maestra vicino alla piazza” si stabilì un canone di affitto di 350 scudi per casa. Il nuovo quartiere assunse il nome popolare di “cuntrà di’ Ebrè”.

[13] Si ha una dichiarazione del 24.12.1620 dei Priori di Alessandria sull’onestà e sul comportamento di un ebreo di Alessandria, Anselmo Vitale:

« Nel modo che han fatto lì suoi antecessori, vive honoratamente e senza offesa di alcuno, et esso di più nelle occasioni de’ soccorsi dati alli soldati del presidio et di alloggiamenti di gente di guerra e Corti di principi (nel 1599 era passata ad A. Margherita d’Austria che andava a Madrid sposa di Filippo che fu poi Filippo III) ha prestato senza interesse qualche danaro alla città et mobili; et si è mostrato sempre amorevole et pronto a far servigio alla Città quando è stato richiesto, di che ne ha avuto la dovuta soddisfazione (1620, 24 dicembre) ». Anselmo aveva sostenuto il mantenimento di ufficiali, coi loro attendenti e relativi cavalli, con denari, alloggio e mobili; quattro letti per 4 mesi aveva concesso; un letto del valore di 17 scudi non gli era stato più restituito. Anche ai cugini Leone, Aron, Donato fratelli Sacerdote che si erano adoperati a favore della Città, i Priori con i Deputati di Alessandria avevano rilasciato una buona dichiarazione (1620): da molti anni abitavano in Alessandria, e qui si erano sempre comportati bene, sovvenendo nelle occorrenze alla Città non solo con denari per i soldati di presidio in essa, ma anche con letti ed utensili in servizio di Principi e delle relative loro Corti in occasione del loro passaggio « mostrandosi sempre pronti ed amorevoli nei bisogni ».

V.: S. Foa, Gli Ebrei…, cit., p.17.

[14] Tommaso d’Aquino aveva insegnato che non si dovesse procedere al battesimo di un bambino invitis parentibus e per bambino si intendeva chi non avesse raggiunto i dodici o tredici anni di età, secondo il sesso. Il Santo Uffizio, però, nel 1678 stabilì che era pienamente efficace il battesimo fatto da una nutrice cristiana su un bambino cristiano od anche su un neonato ebreo affidato alle sue cure, se, ritenutolo in pericolo, avesse pronunziato in segreto su di lui le parole rituali del battesimo. Questi bambini venivano inviati alla Casa dei Catecumeni fondata nel 1543 da Ignazio da Loyola, regnante Paolo III. A questa Casa, nel 1575 si affiancarono il Collegio dei neofiti e il Conservatorio delle neofite. Il rapimento dei bambini ebrei battezzati, fu, per secoli, il terrore per le Comunità ebraiche chiuse nei ghetti, per le sconvolgenti conseguenze di ordine familiare che essi procuravano, per il dolore inconsolabile dei genitori, per l’impossibilità di fermare questi rapimenti. Ancora in tempi vicini a noi, 144 anni fa, la Chiesa ricorse a tale aberrante pratica. Nel 1858, a Bologna un bimbo di sei anni di nome Edgardo Mortara, fu prelevato notte tempo dalla gendarmeria papalina, trasportato a Roma, rinchiuso in un istituto religioso fuori da ogni contatto dai genitori. Ragione addotta era che 5 anni prima una domestica cristiana in un momento in cui le pareva che il neonato Edgardo fosse in fin di vita lo aveva segretamente battezzato per procurargli la vita eterna. Per la chiesa, tale battesimo era pienamente valido anche se dato invitis parentibus, perciò era necessario sottrarre il battezzato alle influenze dei genitori per poterlo allevare cristianamente. Sovrani cattolici e protestanti, intellettuali, personalità e dignitari di tutto il mondo si interessarono del caso per indurre la chiesa a recedere da una posizione non più giustificabile (se mai lo era stata) con i nuovi tempi. Inutilmente: Pio IX non cedette. Edgardo da adulto entrò nell’ordine degli agostiniani e fu per molti anni missionario.

Non passarono che 6 anni, quando a Roma nel luglio del 1864 -esisteva ancora il ghetto- un garzone di calzolaio, tale Giuseppe Coen di 11 ann, venne fatto entrare con l’inganno all’Ospizio dei Catecumeni. Né la morte di una sorella, l’impazzimento della madre, l’interessamento dell’ambasciatore francese valsero a distogliere il papa e il cardinale Antonelli dalla decisione presa. Il Coen entrò più tardi nell’ordine dei carmelitani. Secondo un rapporto dell’ambasciatore austriaco al suo sovrano, questo e il precedente puntiglio della chiesa per il caso Mortara contribuirono a raffreddare i rapporti fra Santa Sede e la Francia e quindi all’acceleramento dell’ingresso del governo italiano a Roma.

V.: A. Milano, Storia degli.., cit., pp. 590-596.

[15] In realtà gli ebrei alessandrini non tradirono mai la città. Si ha un episodio, anzi, di alta onestà degli Ebrei in Alessandria

“Nel 1657 il duca di Modena Francesco 1, avendo mire su Alessandria, tentò di averla col tradimento. E per fare ciò egli pose gli occhi su di un Ebreo che aveva trovato in quei giorni un modo particolare di raffinare le polveri da tiro. Gli furono promesse ben 1500 doppie, se egli, abusando della fiducia in lui riposta, incendiasse le polveri della città, ed ancora un premio maggiore, qualora avesse potuto fare segretamente aprire una porta di Alessandria. Rifiutò l’onesto ebreo la proposta, ma dopo alcun tempo temendo di sua vita, finse di accettare l’offerta. Lasciò il conte in Acqui e se ne tornò in Alessandria con alcuni disegni del nemico che gli erano stati confidati e subito li rivelò con ogni cosa al capo del presidio. Così la città avvisata dei pericoli si armò e si preparò a qualunque evento e dopo lunghi combattimenti e duro assedio riuscì vincitrice del duca, e ciò in grazia dell’onestà di un ebreo”.

V.: S. Foa, Gli Ebrei, cit., p. 21

[16] Il Conti dichiarò il 24 agosto 1686 risultargli esser vero :

1° che nell’anno 1501 era stata stipulata la convenzione tra gli Anziani che erano al Governo di Alessandria ed Abramo de’ Vitali Sacerdote Ebreo fu Giuseppe, a tenore della quale lui, i suoi figli, i suoi nipoti e discendenti, con i procuratori e fattori potevano abitare nella Città, ricevendo pegni e riscuotendo per interesse un soldo per lira ogni mese, cioè il 25% annuo.

2° che era vero che l’Imperatore e Re di Spagna Carlo V al 20 marzo 1538 avesse confermato il permesso concesso agli Ebrei di abitare nello Stato di Milano, dato loro da Francesco Il Sforza, Duca di Milano il 25 agosto 1533.

3° che era vero che in seguito alla dichiarazione presentata dalla famiglia Vitale Sacerdote dimorante in Alessandria per denari imprestati e per pagamenti fatti in Servizio del Re di Spagna, questa famiglia avesse ottenuto due lettere Reali da Filippo II re di Spagna in data 28 novembre 1591 e 7 dicembre 1592, nelle quali si ordinava che fosse messa in ordine la contabilità che si riferiva a detti Ebrei e fossero pagati di quanto risultassero creditori ed anche che essi non fossero obbligati ad abbandonare lo Stato di Milano, nonostante il decreto d’espulsione degli Ebrei da questo Stato, se non dopo di esser intieramente soddisfatti di quanto loro spettasse.

4° che risultavano veri i diversi ordini successivi di Governatori di Milano che confermavano i precedenti sui diritti dei Vitali Sacerdoti di non essere cacciati, che includevano nel beneficio della permanenza anche il fattore o agente di loro, in seguito allo sborso, nel 1640, di 5 mila scudi fatto da tutti gli Ebrei di Alessandria a favore della Regia Tesoreria.

5° che vi erano sette attestazioni fatte in diversi tempi tra il 1591 e il 1648 dai Signori di Provvisione, in cui si constatava che gli Ebrei di Alessandria imprestando danari al pubblico senza interesse, soccorrendo anche particolari, alleggerendo la Città con prestarsi in caso di alloggiamenti, e vivendo sempre onestamente, compresa anche la famiglia Amar, erano stati utili alle città.

6° che esisteva una lettera del Senato di Milano dell’8 febbraio 1613, la quale ordinava che dovevano osservarsi i privilegi concessi alla famiglia Vitale Sacerdote, non ostante l’editto generale d’espulsione degli Ebrei.

7° che una sentenza del Senato di Milano del 6 settembre 1673 riconosceva il diritto di abitare in Alessandria a Zipora moglie del fu Giacob Vitale, ed a Ventura sua figlia moglie di Simone Levi Morello, adducendosi la ragione che anch’esse (come donne discendenti dai Vitali) erano partecipi del credito dei Vitali Sacerdoti.

8° che a sentenza del Podestà Barama (come delegato del Senato di Milano) dell’ ottobre 1675 Aron Josuè Levi poteva abitare in Alessandria per uguali ragioni che competevano ad Anna figlia del Giacob Vitale Sacerdote.

9° che tre ordini dei Podestà d’Alessandria del 5 settembre 1600, del 24 novembre 1633, e del 7 maggio 1638 proibivano ogni molestia a Giuseppe Amar e fratello come agenti dei Vitali Sacerdoti.

10° che varie attestazioni del 1632 di persone vecchie accertavano che la famiglia Pugliese aveva abitato in Alessandria anticamente tenendo bottega aperta, e due altre attestazioni del Governatore di Alessandria Antonio da Olivero, sin dal 1598, rilevavano il buon comportamento di Clemente Pugliese, a cui dall’anno 1612 era stato concesso trasferir la sua bottega da Alessandria a Mortara a beneficio di quel presidio.

Vedi: V.: S. Foa, Gli Ebrei…, cit., pp. 25-27

[17] V.: S. Foa, Gli Ebrei…, cit., pp. 27-28

[18] V.: S. Foa, Gli Ebrei…, cit. p. 28

[19] Un documento dell’epoca reca l’indicazione dei seguenti luoghi che “si potriano assegnare per gli hebrei: 1° nella contrada di San Martino e dei Carreggi; 2° dove i detti hebrei hanno la loro sepoltura cioè appresso a San Bernardino; 3° nella contrada che va diritto da san Giacomo della Vittoria a Porta Genovese”. Più tardi, per ordine del Vescovo e del Governatore, tutti gli E s’erano ridotti ad un’unica contrada, chiamata appunto degli E, e successivamente via Maestra; cioè il tratto dell’attuale via Milano compreso tra piazzetta della Lega e via Migliara.

Per maggiori notizie sul ghetto, vedi: C. Zarri, Profilo storico del ghetto di Alessandria, Rivista di Storia, Arte e Archeologia della Provincia di Alessandria 1991, pp. 161-17

Presentazione

Cap. I: L’arrivo

Cap. XIII: Il lavoro obbligatorio