Cap. I: L’arrivo

Abramo, figlio di Giuseppe Vitale de’ Sacerdoti fu il primo ebreo a giungere in Alessandria [1] : era l’anno 1490.

Da dove venisse, e perché, ricco banchiere qual era (imprestò denari a Carlo V) avesse deciso di stabilirsi in Alessandria, città poco invitante per il clima, per le continue alluvioni dei suoi due fiumi, periodicamente colpita da carestie e pestilenze, dal clima politico incerto per i continui conflitti fra le varie famiglie, non è dato sapere: forse proveniva dalla Francia, seguendo quei flussi migratori che, da quel paese, ove frequenti erano le espulsioni, giungevano in Piemonte [2] . L’ipotesi più probabile è che sia stato chiamato dai reggitori della città (“trattenuto dagli Anciani del Popolo a loro arbitrio” [3] , più che mai bisognosi di denaro e che egli, considerate le condizioni favorevoli di tutela della sua vita e dei suoi traffici, abbia accettato. O, forse, intuì, da uomo d’affari qual era, la possibilità di sfruttare una situazione favorevole che si presentava per i suoi investimenti.

Alessandria, piccola città di circa 12 mila abitanti, appartenente al Ducato di Milano [4] , (il Piemonte, allora, era soggetto a varie giurisdizioni: il ducato di Savoia, che si estendeva fino a Nizza, il marchesato di Saluzzo, il marchesato del Monferrato, la repubblica di Genova, il ducato di Milano) stava, infatti, vivendo un periodo di relativo benessere: furono potenziati e incrementati gli allevamenti di bestiame, e la produzione foraggiera, nacquero le prime corporazioni (lanieri, calzolai, falegnami, fornai, muratori mugnai ecc); sul fiume Tanaro, ove erano in funzione numerosi mulini, fu costruito, in pietra, un nuovo ponte coperto. Vi fu “un notevole sviluppo edilizio di cui i momenti salienti sono l’erezione dei palazzi Dal Pozzo, in piazzetta S. Lucia, e Inviziati (l’attuale via Vescovado), la fondazione della chiesa del Carmine e di San Bernardino (l’attuale penitenziario) la ricostruzione di Santa Maria di Castello e del Palatium Vetum; furono lastricate molte strade e altre dotate di portici; si sistemò la rete fognaria…” [5] Aumentò il lusso della nobiltà e della borghesia , tanto che nel 1487 il governo sforzesco aveva varato una legge per combattere lo sperpero e la corsa ai beni voluttuari.

Fu anche un periodo di profonde contraddizioni: se da “un lato si registrò questa straordinaria volontà di ripresa, dall’altro si lamentarono i guasti delle lotte interne, il pesante fiscalismo, la rovina di tratti delle mura, il dissesto delle finanze, l’infittirsi delle esplosioni epidemiche. Carestia e morte erano quasi una realtà quotidiana: nel 1499 i francesi saccheggiarono la città, negli anni dal 1500 al 1504 infuriò la peste [6] , nel 1511 un terremoto colpì la città.

Trascorsero dieci anni e gli Anziani della città, costatata, forse, l’utilità che Abramo portava alla città, firmarono con lui una condotta, [7] (documento con cui si permetteva ad Ebrei di fermarsi in città, istituendo un banco di prestiti, assicurando loro privilegi e tutela), composta di ben 32 articoli. Tale contratto fu vantaggioso per entrambe le parti: da un lato, la famiglia Vitale trovava una sede in cui vivere, operare, osservare, senza impedimenti o interdizioni, la propria fede, dall’altro, gli Anziani cercavano di sopperire alla mancanza di denaro, mancanza resa più acuta dalla mancanza del banco dei Pegni [8] distrutto dai francesi nel 1499 (e sarà ricostruito solo nel 1649) e nello stesso tempo trovavano un mezzo che aiutasse i bisognosi alessandrini, sempre più numerosi, sempre più poveri e quindi potenzialmente pericolosi.

Nell’anno 1590 (35 anni dopo la bolla “Cum nimis absurdum” [9] ), Filippo II di Spagna ordinò l’espulsione di tutti Ebrei dallo Stato di Milano entro otto mesi. Così, anche da Alessandria, gli Ebrei avrebbero dovuto andarsene. Simon Vitale Sacerdote, figlio di Abram, si recò a Madrid e ottenne dal re di poter rimanere in Alessandria, con tutta la famiglia, sin tanto che fosse stato soddisfatto dei suoi crediti, poiché suo padre aveva imprestato alla corte spagnola enormi somme [10] .

E Simone non si mosse da Alessandria. Nel frattempo era giunta in Alessandria da Vercelli una famiglia Levi, Salomone che aveva sposato una Vitale.

In totale gli Ebrei presenti in città erano circa una trentina.


Note

[1] Si ha però una dichiarazione del vice Rabbino Raffael Baruch Amar del Tishrì 5576 (1815) in cui afferma di essere stato chiamato ad esaminare una pietra posta vicino ad una finestra in una casa diroccata vicino al fiume Bormida la qual pietra portava scritto in forma sbiadita e difficile a rilevare:

“Questa lapide sepolcrale è stata posta / per la signora Hanà di Elia Con / di beata memoria morta il giorno 3 Tisrì 5237 / riposi in pace”.Questa data ebraica corrisponde al 1477.

V.: S. Foa, Gli Ebrei in Alessandria, Città di Castello, Unione Arti Grafiche 1959, pag. 7, nota 4.

[2] Ad inizio 400 gli Ebrei erano arrivati in Acqui Terme, Cuneo, Savigliano (1405), Moncalvo, Chieri, Torino (1424). A fine secolo, si stanziarono a Biella, a Saluzzo (1494), ad Asti (1492), Casale (1492). Nel secolo successivo, a Cherasco, a Nizza M. (1539), a Ivrea (1547), a Fossano (1579). Fra il 1450 e il 1550, si ebbero anche presenze ebraiche in piccole località della nostra provincia come a Bassignana, Castellazzo Bormida, Castelnuovo Scrivia, Felizzano, Frugarolo, Fubine, Gavi, Ovada, Quargnento, Sale, San Salvatore Monferrato, Sezzadio, Solero, Tortona, Voltaggio. Tali insediamenti non ebbero continuità e s’interruppero, a volte per riprendersi tempo dopo, a seconda delle necessità, degli interessi e delle politiche dei vari governanti.

Così, Ada Vitale, in una intervista rilasciata anni fa ad una ricercatrice (Archivio Ada Vitale):

“-probabilmente venivano dalla Francia, non dalla Spagna, perché la zona dove maggiormente si erano trasferiti gli Ebrei che erano stati cacciati nel 1492 dalla Spagna erano andati specialmente in Toscana, Livorno. …[I miei antenati] parlavano un gergo con qualche parola di spagnolo, non perché fossero di provenienza spagnola, ma perché nelle zone dove vivevano avevano dominato per tanti anni gli spagnoli, il Ducato di Milano, il Monferrato, c’erano governatori spagnoli; la vita era dominata da questa gente. Io mi ricordo che c’erano delle parole [spagnole] per esempio, questa mia zia, vecchia zia che viveva con noi parlava della “criada”; in spagnolo vuol dire donna di servizio; quindi non è una parola particolarmente ebraica, era proprio una parola che veniva da questa dominazione degli spagnoli nell’alta Italia, specialmente nel ducato di Milano cui Alessandria è appartenuta per tanto tempo; solo ultimamente è passata ai Savoia, prima era appunto sotto il dominio di questi spagnoli.”

[3] da una relazione di Zarade y Herrer che trovasi all’Archivio di Stato di Alessandria, Serie A, n. 120

V.: G. Pastore, Gli Ebrei in Alessandria, in Atti del Convegno “L’altro Piemonte nell’età di Carlo Alberto, Alessandria/Casale 1999, pp. 116-120.

[4] Sia Francesco Sforza che i suoi successori furono larghi di favori verso gli ebrei e pronti a sostenerne le ragioni specie nei confronti della popolazione e dei comuni locali, tradizionalmente ostili. Come contropartita di questa ospitalità saldamente protetta, gli ebrei pagarono un prezzo particolarmente alto: dovettero impegnarsi ad esercitare il prestito in tutto il territorio ducale anche là dove esso non era renumerativo e per di più a pagare un tributo molto elevato che da tremila imperiali salì rapidamente a ventimila

V.: A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1963, p. 205.

[5] C. Zarri, Alessandria da scoprire, WR Editoriale & Commerciale, Alessandria 1986, p. 30.

[6] Nel secolo precedente, Alessandria fu colpita da pestilenze nel 1400, 1422, 1478, 1482, 1485; poi ancora nel 1510-1511, 1523, 1527. Vedi C. Zarri, Alessandria… cit., pp. 32-39.

[7] In essa:

– si dichiaravano cittadini con diritto di dimora a tempo illimitato l’Abramo con tutti quelli che erano con lui;

– era assicurata la tutela di tutto ciò che avevano con sé;

– erano considerati ugualmente cittadini i discendenti, con il godimento di tutte le concessioni che avrebbero ottenuto gli abitanti senza essere sottoposti agli oneri reali e personali, ordinari e straordinari, esenti dal cavalcato, dal dovere di ospitare soldati;

– il prestito era previsto nelle migliori condizioni tanto per la gente della città e distretto, quanto per i forestieri; se il pegno era risultato rubato, doveva essere restituito previo indennizzo. L’interesse per quelli della città non doveva essere superiore al 25%, ma libero coi forestieri. Si doveva credere ai loro libri e i mesi rotti dovevano considerarsi come interi;

– Abram e i suoi agenti potevano esercitare ogni arte;

– era lecito associarsi ebrei e non ebrei (questi, però, non potevano né dovevano essere svelati)

– nessun altro poteva istituire un banco, neppure ebreo, senza il permesso di Abramo

– era tenuto a conservare i pegni per 12 mesi e dopo, previo avviso, potevano essere incamerati ad un prezzo non superiore al doppio del denaro prestato

– avevano diritto ad avere casa in cui potevano esercitare le loro funzioni senza timore di disturbo da chiunque ivi compresi gli ecclesiastici

– era riconosciuto il diritto di avere un terreno in cui seppellire i propri morti, di poter usare carne macellata secondo l’uso ebraico, senza maggiorazione di prezzo, e di poter tener chiuso l’ufficio prestiti nei giorni festivi ebraici

– erano esenti dal portare il segno distintivo, perché così sfuggivano agli insulti di qualunque maniera

Tutela del pegno:

– il pegno poteva essere trasportato allontanandosi il prestatore per ragioni di guerra o di pestilenza, senza dover pagare dazi;

– nessuna responsabilità al prestatore se i pegni erano corrosi da topi o da tarme purché si tenessero in casa gatti e si battessero i panni a tempo

– in caso di saccheggio o di incendio non erano obbligati a rifondere il prezzo del pegno prestandosi fede al giuramento dell’ebreo;

– i pegni non potevano essere soggetto di sequestro

Tutela della persona:

– la tutela della persona era assicurata in pieno: solo il venerdì santo non potevano uscire;

– nessun ebreo del gruppo Vitale poteva essere arrestato o tenuto in prigione, se non in caso di ribellione al re;

– era lecito ospitare altri ebrei;

– nessun ecclesiastico e nessun ufficiale poteva immischiarsi nei loro affari;

– nessun processo per sospetto poteva farsi contro di loro senza la testimonianza di tre testi degni di fede e solo per cose gravi, come omicidio o appiccare fuoco

– venivano riconosciuti i privilegi concessi dal Marchese di Mantova e dal Comune di Savona non diversamente da quelli concessi dal Comune di Alessandria e dalla “regia maestà” [re di Francia]

V.: S. Foa, Gli Ebrei…, cit., pagg. 9-12

La convenzione, stipulata con rogito del notaio Aloisio de Stanchi, è andata perduta, ma se ne può rinvenire una copia nell’Archivio di Stato di Alessandria.

[8] La fondazione dei primi Monti di Pietà da parte dei frati minori francescani si ebbe dopo la prima metà del Quattrocento, in Umbria: nel 1462 fu fondato a Perugia il primo Monte di Pietà, quindi, nel 1463 a Gubbio, nel 1464 a Orvieto, nel 1465 a Foligno, nel 1467 a Terni, nel 1468 ad Assisi. Dopo di ciò, attraverso le Marche e la Toscana, i Monti di Pietà si estesero rapidamente ovunque, fino a che, sul finire del Quattrocento e i primi del Cinquecento, giunsero ad essere numerosi in tutta Italia.

“Il principio informatore dei Monti era più che giusto. C’era una profonda disparità economica e sociale fra le diverse classi, con grandi ricchezze da un lato e abissi di povertà per il 90, anche il 99.% della popolazione. Di qui, la assoluta necessità di ottenere prestiti in continuazione. Era giusto, quindi, il principio di un minimo riequilibrio delle ricchezze, ed era comprensibile (anche se non approvabile come «filosofia») che un religioso con la tonaca pensasse «è atroce, è immorale per un cristiano dovere dipendere da un “senzadio” per la propria sussistenza; dunque, cerchiamo di sostituire l’ebreo; e se dobbiamo concedere dei prestiti, organizziamoci fra di noi». C’era un vizio di forma tecnico: essi credevano fermamente e ciecamente che il prestito ad interesse fosse un vizio di base, una manifestazione del diavolo, un male con la emme maiuscola. Quale la via di uscita? Dare ai cristiani dei prestiti «cristiani», senza pagamento di aggio. Conseguenza: i primi Monti di Pietà fallirono nel giro di pochi mesi o anni. Gli ebrei continuarono ad esercitare i loro servizi, anzi più di prima perché dovevano soccorrere tutta la gente rovinata dal fallimento dei Monti, e talvolta anche i finanziatori dei Monti. Fu soltanto assai più tardi, quando finalmente un Pontefice [papa Leone X, con una bolla del 1515 stabilì che, anche se così riformati, Montes pietatis licitos esse et contrarium praedicentes excommunicationis latas sententias incurrere,] si decise ad accettare le inderogabili leggi dell’economia (le quali dicono che se uno presta del denaro ad un altro ha necessità assoluta di ricevere il capitale arricchito di un interesse; altrimenti la cosa non funziona) – a questo punto, e cioè alla fine del XVI secolo, l’ebreo si trovò privato anche di questa possibilità, di campare con l’unico mestiere che gli avevano lasciato per sopravvivere – il mestiere più odioso (ce n’era un altro, e si diffuse particolarmente a Roma: il commercio degli abiti usati e rattoppati – la cosiddetta «strazzaria», da cui deriva, filtrata attraverso i decenni e i secoli, una notevole presenza ebraica anche odierna nei mercati dell’abbigliamento, casual e non causal” G. Lopez, in Conoscere gli Ebrei, Torino Enciclopedia, Torino1982, p. 17

Ponendo a confronto l’interesse richiesto dai nuovi Monti di Pietà e dal banchi ebraici, rimane a prima vista poco chiaro come quelli non abbiano sbaragliato rapidamente questi. Una prima spiegazione è offerta dal fatto che, nonostante che in epoche successive i Monti di Pietà riuscissero a rinsaldarsi patrimonialmente, non avevano la potenzialità, anche in tempi normali, di soccorrere tutta la miseria cittadina.

“Quando poi si abbattevano sulla città una carestia, un’epidemia o una invasione, le riserve dei Monti si riducevano rapidamente a zero. In questi casi eccezionali, il prestatore ebreo doveva funzionare da valvola di sicurezza, mettendo sulla piazza il contante che altrove non si poteva più ottenere. Ma anche nell’andamento normale del credito minuto, l’ebreo era in grado di fornire servigi e facilitazioni che spesso lo rendevano meglio accetto del Monte stesso. Questi vantaggi si possono così riassumere: valutazione più elevata dei pegni; accettazione di ogni sorta di garanzie; durata maggiore del prestito; possibilità di concedere anticipazioni su raccolti futuri o su derrate alimentari giacenti; orario di lavoro più prolungato e maggiore segretezza nelle operazioni. Questi vantaggi erano considerati tali da controbilanciare la non piccola disparità fra i due tassi di interesse. A discarico degli ebrei vi è poi da aggiungere che se essi erano costretti a richiedere un compenso quasi doppio, gran parte della differenza era destinata a rientrare nelle casse del governo attraverso quell’assieme di tasse, di prestiti gratuiti, di regalie di cui abbiamo già parlato. In conclusione, da ora e fino a che non furono emanate delle vere e proprie leggi per l’abolizione dei banchi ebraici – e le più gravi furono nel Seicento -, denaro dei Monti di Pietà e denaro dei prestiti ebraici poterono procedere di pari passo, fronteggiandosi a viso aperto.”

V.: A. Milano, Storia degli Ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1963, p. 211.

[9] Fra le tante bolle che la Chiesa emanò contro gli Ebrei, questa emanata da Paolo IV il 14 luglio 1555 fu la peggiore e fece precipitare gli ebrei in un abisso di degradazione. Nel preambolo si legge: “Poiché è assurdo e sconveniente al massimo grado che gli ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna, con la scusa di essere protetti dall’amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo a noi, mostrare tale ingratitudine verso i cristiani da oltraggiarli per la loro misericordia […] la loro sfrontatezza è giunta a tanto che essi si azzardano non solo a vivere in mezzo ai cristiani, ma anche nelle vicinanze delle chiese senza alcuna distinzione di abito […] ci siamo veduti costretti a prendere i seguenti provvedimenti…” Seguono 14 proibizioni, tra queste:

– tutti gli ebrei avrebbero dovuto abitare in una sola strada separata dai cristiani e munita di un solo portone di entrata e uscita;

– in ogni ghetto non poteva esistere più di una sinagoga: le altre dovevano essere distrutte

– gli immobili posseduti dagli ebrei dovevano essere venduti ai cristiani

– gli uomini dovevano portare un berretto distintivo e le donne uno scialle o un velo

– fu proibito agli ebrei di avere servitù cristiana

– fu proibito agli ebrei qualsiasi forma di dimestichezza con i cristiani

– non potevano lavorare in pubblico durante le festività cristiane

– fu proibito ogni commercio se non quello degli abiti usati e roba vecchia “solo arte strazziariae seu cenciariae ut vulgo dicitur contenti”

– chi aveva banco doveva ridurre l’interesse percepibile al 12%

– furono abolite tutte le concessioni e i privilegi speciali, in qualunque tempo concessi, sia come singoli che come comunità.

Come si vede, non una diretta eliminazione fisica di un piccolo gruppo, ma un lento, inesorabile disfacimento fisico. Né fu da meno, tra i suoi successori, l’alessandrino Pio V, feroce prosecutore della politica paolina: nel 1566 richiamò tutte le disposizioni di Paolo IV in particolare quelle riguardanti il segno; nel 1567 impose agli ebrei del suo regno di vendere tutti gli immobili che avevano acquistato sotto Pio IV e nell’ottobre soppresse il permesso di prestare. Nel 1569, 26 febbraio, dette l’ultimo colpo con la bolla Hebraeorum gens solo quondam a Deo dilecta: entro 3 mesi tutti gli ebrei che abitavano le terre del papa dovevano abbandonarle, eccetto quelli di Roma e di Ancona, quest’ultimi perché utili al commercio con il Levante, provocando un aumento smisurato nei ghetti delle due città. Nella bolla si cercò di dare una giustificazione, se mai era necessario darla: gli ebrei erano condannati perché rei di immoralità e di pratiche divinatorie e magiche. Pio V fu fatto santo.

[10] Simone fu, indubbiamente, un personaggio di spicco, ben addentrato nei grandi traffici di denaro che dall’Italia andavano verso la Spagna, sempre bisognosa di liquidità: fu in contatto con vari stati d’Italia, da Firenze a Venezia, a Mantova, con vari diplomatici insigni fra cui Michele Bonelli, figlio di una nipote di Pio V, fatto Cardinale nel 1566 e conosciuto come Cardinal Alessandrino. Fu inoltre in rapporti con il duca di Savoia Emanuele Filiberto: con lui trattò per la fondazione di un porto franco nel Nizzardo ove accogliere gli Ebrei con condizioni di favore, cercò di facilitare il trasferimento dei ricchi Ebrei spagnoli e portoghesi in Piemonte per sostenere le deficitarie finanze del Duca. Fu da lui incaricato di sviluppare rapporti commerciali tra il Piemonte e i paesi del Sol Levante tramite il duca di Nasso. Fu ostacolato in questa sua diplomazia dai vari stati e dalla Chiesa, che vedevano nel crescente ducato di Savoia un temibile concorrente.

V.: S. Foa, Gli Ebrei …, cit., p.14, nota 15

Due sue figlie si convertirono alla fede cristiana, e a loro il padre corrispose regolarmente la dote, né poteva fare altrimenti in quanto previsto dalle leggi; ciò nonostante, si dovettero accontentare di matrimoni con uomini di bassa condizione sociale

V.: C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia Gli Ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1996, vol. 1, p. 760.

Presentazione

Cap. II: I primi atteggiamenti ostili

Cap. XIII: Il lavoro obbligatorio