Cap. III: Studente fra Torino, Alessandria e Asti

Studenti di ingegneria in visita a impianti idroelettrici

Quando, nel 1937, intrapresi i miei studi di ingegneria nel prestigioso Politecnico di Torino, mio padre avrebbe preferito che mi fossi iscritto a Medicina presso l’Università di Pavia, centro studentesco più tranquillo di quello piemontese che aveva fama di paese di bengodi, con troppe sartine a caccia di studenti e viceversa…
Pur preoccupato e non del tutto convinto, il papà mi accompagnò a Torino non solo per l’iscrizione, ma anche per sistemarmi in pensione presso qualche famiglia di correligionari che avrebbe potuto assistermi e magari tenermi d’occhio. Andando a informarsi presso la Comunità, fu soddisfatto nel trovare la famiglia Lattes, abitante in un bell’appartamento in piazza Vittorio, vicino al Po.

Mio padre mi passava normalmente cento lire alla settimana che mi consentivano anche qualche distrazione con gli amici, coi quali spesso studiavo e pranzavo.

Ricordo in particolare Edmondo Marucco di Torino e Giovanni Baratta di Acqui Terme. Ambedue erano assai meno “imbranati” di me: il primo mi convinse a passare una serata al Valentino in un bel night; l’altro, senza successo, cercava di insegnarmi come fermare per strada le sartine al termine del loro lavoro. La tecnica che adottava in rapida successione era questa: prima tampinava per un po’ quella prescelta, poi l’avvicinava dicendole: “Scusi, noi ci conosciamo”. “E dove ci siamo visti?” chiedeva lei. “Ma non si ricorda? Nella sala da ballo dello stabilimento delle Piscine di Acqui”. C’erano sempre (diceva lui) buone probabilità che la ragazza rispondesse: “Mah, mi pare”. A questo punto il gioco era fatto e, dopo poco, vedevo la coppia passeggiare per la via, stringendosi teneramente sotto braccio. A fine guerra Baratta e io ci siamo ritrovati a Genova, impiegati, lui alla Società Gaslini, io alle Ferrovie e, passeggiando per Via Balbi, ormai ripulita dalle macerie dei bombardamenti, mi confessò che una volta la sua tecnica era abortita: la ragazza, abbordata per strada, invece di rispondere con: ”Mah, mi pare”, gli aveva mollato un sonoro ceffone aggiungendo: “Alla tua storiella delle Terme di Acqui ci sono già cascata una volta, ora basta!”.

Quanto alle lezioni, quelle del primo anno del biennio del Politecnico, si svolgevano nella vecchia sede di via dell’Ospedale. Durante la guerra un bombardamento alleato rase al suolo tutto il grande edificio che occupava un intero isolato. Così oggi possiamo vedere, al posto del Politecnico, i soliti brutti condomini.

Frequentavo assiduamente tutte le lezioni e in quelle di Fisica 1 del Prof. Eligio Perrucca, di Analisi 1 del Prof. Guido Fubini Ghiron e di Geometria Analitica dei Prof. Alessandro Terracini e Gino Fano prendevo appunti su dei quadernetti (che conservo ancora) con una copertina nera. A fine giugno 1938 avevo già affrontato e superato tutti gli esami previsti, tranne quello di Fisica 1, che intendevo preparare per la sessione di ottobre.

Alla fine dell’estate con la famiglia ero a Curtatone (Mantova) dai nonni Dalla Volta nella loro casa di campagna “La marchesina”. In quell’habitat fresco e riposante contavo di preparare in tutta tranquillità quell’osso duro che era Fisica 1. Spesso però ero distratto dalle notizie che ci propinavano radio e giornali dopo la pubblicazione del Manifesto della Razza, un vergognoso documento compilato fra gli altri da “illustri” professori universitari che giustificavano la politica razziale. A quel punto c’era da aspettarsi anche in Italia una legislazione antisemita e razzista sulla falsariga delle aberranti Leggi di Norimberga.

Quando giunse in campagna anche il fratello della mamma, Amedeo Dalla Volta, professore ordinario di Medicina Legale presso l’Università di Catania, si verificò appunto l’annuncio della legge in questione.

Erano le 14 del giorno 2 settembre 1938 e l’annunciatore della EIAR (la RAI di allora), con la voce stentorea di circostanza, diede notizia che, nella seduta del Consiglio dei Ministri, si era stabilito di vietare agli ebrei l’esercizio dell’insegnamento nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, come pure la frequenza da parte di scolari e studenti in dette scuole.

Mentre mio zio si asciugava la fronte imperlata di sudore, io, in un moto d’ira, lanciai contro la parete della sala da pranzo il grosso volume rilegato di Fisica 1 e, senza fiatare, ascoltai il seguito dell’annuncio. Quando sentii che, come unica eccezione, era ammessa la prosecuzione degli studi universitari fino alla laurea a quegli studenti che fossero già iscritti all’Università, emisi un sospiro, mi alzai e andai a raccogliere il volume con la rilegatura marrone ormai staccata.

A novembre, superato l’esame di Fisica 1, iniziai il secondo anno in una situazione ben diversa, per il fatto di dover sottostare a sempre più odiose e restrittive norme riguardanti gli ebrei; ricordo in particolare :

  • sospensione definitiva dei corsi in caso di insuccesso agli esami;
  • banchi separati nelle aule;
  • obbligo per i professori di esaminare gli allievi ebrei per ultimi, sulla base di appositi elenchi;
  • divieto di partecipare a visite tecniche;
  • divieto di concorrere a borse di studio;
  • divieto di partecipare alle lezioni di cultura militare.

Ma quello che più ci colpiva era la sostituzione dei professori ebrei con i loro assistenti, bravissimi ma incapaci di quei rapporti umani che caratterizzavano i loro “maestri”. Se ne accorsero anche i vecchi bidelli che, l’anno prima, finita la lezione, accorrevano premurosamente a spazzolare la giacca dei professori, imbiancata dal gesso e li aiutavano a indossare il cappotto. Con l’epurazione dei professori ebrei inspiegabilmente non si videro più i vecchi bidelli e cambiò anche il rito della firma dei libretti di frequenza.

Ai nuovi professori bastava che i nuovi bidelli raccogliessero i libretti e, una volta firmati, li restituissero agli allievi, ritirando la mancia.

Rispetto al primo anno si aggiunsero due studenti ebrei, ex allievi ufficiali dell’Accademia Militare di Artiglieria e Genio di Torino (i cui corsi erano equiparati a quelli del Politecnico). Uno era mio cugino Aldo Finzi, l’altro Aldo Viterbi, figlio del Comandante dei Vigili del Fuoco di Torino, ovviamente epurato. Arrivarono alla prima lezione col morale a terra, dopo aver sognato una brillante carriera di Ufficiali del Regio Esercito. Naturalmente li aiutai ad ambientarsi, studiando spesso insieme a loro.

In quel primo anno, come pure in quelli successivi, sia i professori che i compagni di studi ci trattavano in modo urbano, senza sgarbi di alcun genere e spesso amichevolmente. Solo i fiduciari del GUF (Gioventù Universitaria Fascista) tentavano di isolarci dalla massa di compagni ma, a dire il vero, senza alcun successo.

Voglio però ricordare un episodio riguardante il docente di Cultura Militare, un caricaturale ufficiale della Milizia, che veniva in aula in divisa col petto decorato da una doppia fila di nastrini colorati. La Germania era appena entrata in guerra e le lezioni di Cultura Militare ci interessavano perché venivano descritte e spiegate le battaglie dei più famosi condottieri a partire da quelli greci e romani. Fummo quindi tutti d’accordo di presenziare alla prima lezione nella grande aula ad anfiteatro, capace di oltre duecento studenti.

Il professore, appena giunto alla cattedra, consultò un foglio e lesse ad alta voce i nomi degli ebrei, ordinando di rispondere presente e di rimanere in piedi, quasi fossero degli imputati di chissà quali reati (1).

Concluse la sceneggiata gridando: “Voi siete ebrei e quindi nemici. Vi ordino di lasciare immediatamente quest’aula e di non tornarvi mai più!” Sotto gli sguardi esterrefatti dei compagni, in un silenzio tombale, ce ne siamo usciti, turbati da quella mascalzonata del tutto gratuita, mentre a me veniva una gran voglia di piangere. Ma, come diceva mio padre: ”Dio non paga il Sabato”. Mi è stato assicurato che quel figuro alla Liberazione è stato giustiziato dai partigiani per le sue malefatte, che certamente non si limitavano a quanto ho raccontato.

Un altro episodio che mi pare interessante ricordare è quello del lascito testamentario della vedova Carpi di Mantova.

Avevo saputo da mio zio Amedeo che era riuscito a frequentare la facoltà di Medicina all’Università di Padova, usufruendo di un lascito di una lontana parente che era, appunto, la vedova Carpi di Mantova.

Fatte ricerche del testamento, mi misi in mente di beneficiarne anch’io, in quanto parente in linea materna: il testamento assicurava la precedenza a tutti i parenti per fruire di assegni per l’assistenza ospedaliera e per motivi di studio. La vedova Carpi doveva essere stata una donna eccezionale per intelligenza e preveggenza perché aveva lasciato scritto nel testamento che l’assegnazione del lascito non ammetteva “distinzioni di religione e di razza”. Mi occorreva però il rilascio dei documenti di studio da parte della Direzione Amministrativa del Politecnico. Dovetti minacciare un ricorso legale per avere una dichiarazione comprovante l’esito degli esami nelle singole materie. Il direttore, messo di fronte al dilemma se avesse più valore il testamento della vedova Carpi o la circolare ministeriale che vietava di erogare agli ebrei fondi pubblici, dovette dare ordine di rilasciarmi il documento richiesto. Anche se mio padre mi diceva di lasciar perdere, ebbi partita vinta e potei contribuire alle spese per i miei studi.

In quel secondo anno di Politecnico e nei successivi ebbi occasione di conoscere e fare amicizia con tanti altri ebrei, ragazzi e ragazze. Potevamo conversare liberamente, senza però dare nell’occhio con assembramenti sospetti. Partecipai anche ad un campeggio invernale a Canazei, oltre a riunioni, gite in montagna, lezioni e conferenze.

Con tutti, ragazzi e ragazze, mi trovavo bene anche se a volte sentivo alcuni amici volare, come si dice, troppo alto (2).

In quel periodo strinsi anche vincoli di amicizia con la famiglia Jona di Asti (3) presso la quale si riunivano di frequente molti giovani e meno giovani di Asti, di Alessandria e anche ebrei stranieri che erano in residenza obbligata in paesi vicini.

Tutti i componenti della famiglia Jona erano di profonda cultura e nel contempo cordiali e ospitali; fra l’altro faceva tenerezza guardare i due anziani genitori che si beavano nello stare ad ascoltare i discorsi dei loro figli con i loro amici e ospiti. Tutti i fratelli e le sorelle Jona erano in gamba e si scambiavano le loro opinioni con grande animazione, ma primeggiava Enrica, la più anziana, che non tollerava che qualcuno rimanesse in disparte o se ne stesse zitto. Io ero in maggiore confidenza con i figli più giovani, Lino, studente del Politecnico, rispetto a me avanti di un anno, e Laura, che contava di laurearsi in filosofia.

Incontravo entrambi in treno quando tornavo ad Alessandria e ci intrattenevamo a parlare sino ad Asti. Lino con me parlava con indiscussa competenza di argomenti tecnici e scientifici, in quanto aveva conoscenze enciclopediche su qualsiasi materia; in treno cercò persino di spiegarmi la teoria della relatività di Albert Einstein che tanto lo entusiasmava.

Con Laura invece si parlava di libri di successo, di tanti amici comuni e del futuro di un mondo che sembrava impazzito. Qualche volta ci piaceva affacciarci insieme allo stesso finestrino per bearci dello spettacolo del verde delle colline, dei filari delle viti e gli alberi in fiore. Vicino a lei mi sentivo stranamente euforico, specialmente quando indossava quella bella camicetta bianca con ricami che sapevano d’antico…

Note

  1. In ordine alfabetico erano: Bonfiglioli Guido, Finzi Aldo (v. nota seguente), Finzi Vittorio, Lattes Giorgio, Lattes Mario, Norzi Livio, Tedeschi Cesare, Viterbi Aldo e uno straniero di cognome Trachman.
  2.  Ricordo alcuni nomi ben noti: Primo Levi, Emanuele ed Ennio Artom, Eugenio Gentili Tedeschi, Franco Momigliano. Fra le ragazze ricordo Lucia e Lella Morpurgo, Anna Maria Segre, Alda Sacerdoti, Ester Valabrega, Anna Maria Levi, Carmela Majo, Miranda Ulman e Franca Del Vecchio che a fine guerra divenne mia moglie. Franca era figlia del prof. Ettore Del Vecchio, fratello di Clara sposata a mio zio Dante, fratello minore di mio padre. Zio Dante e zia Clara ebbero tre figli Aldo, Achille e Alberto.
  3. Allo scoppio della guerra la famiglia Jona comprendeva il padre Leopoldo con la moglie Olga Levi e cinque figli dai 28 ai 20 anni (Enrica, Donato, Elda, Lino, Laura). Nel dopoguerra Donato si sposò con Delfina Ameri (da cui ebbe la figlia Tullia) e Laura con Leo Diena. Elda e Laura si laurearono nel dopoguerra.

Il mio rifugio in Val Borbera

Introduzione di Mauro Bonelli

Cap. V: L’8 settembre 1943

Cap. VIII: Finalmente in Val Borbera

Capi. XVIII: Coi partigiani

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