Cap. V: L’8 settembre 1943

Nei primi mesi del 1943 le sorti della guerra in Italia erano ormai segnate.
In luglio si riunì il Gran Consiglio del Fascismo e Mussolini fu messo in minoranza; il Re Vittorio Emanuele lo fece arrestare e deportare in località segreta. Il Generale Badoglio, che ne assunse la successione, pur proclamando: “la guerra continua”, fu disponibile a trattare segretamente un armistizio con gli Alleati.

Dopo quarantacinque giorni, nei quali si dissolse il fascismo e l’Italia fece i primi passi verso la democrazia (senza peraltro abrogare le leggi razziali). L’8 settembre con la resa si sfasciò quello che restava dello stato italiano: i tedeschi gridarono al “tradimento” e da alleati si trasformarono in nemici. Soldati, sottufficiali e ufficiali italiani, rimasti senza precisi ordini, in parte si arresero ai tedeschi, in parte si diedero alla macchia, indossando abiti civili.

Giovanni Bava fu fra i fortunati. Calatosi con una fune dai bastioni della Cittadella, riuscì a dileguarsi e a raggiungere casa nostra a sera inoltrata, con la divisa sbrindellata. Al mattino, dopo aver prelevato i suoi abiti civili pronti per l’evenienza, ritornò a Dova Inferiore superando fortunosamente il posto di blocco subito istituito dai tedeschi sul ponte Bormida, sulla statale per Arquata Scrivia e Genova.

Quel 9 settembre per gli ebrei fu l’inizio di un periodo assai critico perché consapevoli che all’occupazione militare dell’esercito tedesco sarebbe seguita, come nel resto dell’Europa occupata, la caccia e l’arresto degli ebrei da parte della polizia italiana o tedesca.

Mio padre, incorreggibile ottimista, non ravvisò la necessità di lasciare Alessandria e, almeno per il momento, non intendeva raggiungere la mamma ed Enzo nella casa di campagna della nonna a Curtatone (Mantova); viceversa io ero deciso a rifugiarmi al più presto in Svizzera. Ritenni però utile consultarmi con il fratello di mio padre, lo zio Attilio, che, con la moglie Augusta, era nella sua villa del Resinone sulle colline di Valenza Po. Inoltre mi interessava parlare con alcuni amici. Perciò in bicicletta passai per il centro di Alessandria ancora presidiato da soldati del nostro esercito e, attraversato il ponte sul Tanaro, mi imbattei in un gruppo di gente tutta eccitata e con gli occhi lucenti; erano contadini, sfollati, ex militari vestiti nelle fogge più strane, studenti: alcuni raggianti, ritenendo la guerra ormai conclusa e i tedeschi sul punto di ritirarsi oltralpe, altri invece impauriti e con borse ricolme di viveri, nel timore di un immancabile periodo di carestia.

Trovai gli zii molto preoccupati. Secondo loro l’occupazione militare dell’Italia da parte dei tedeschi, con l’obiettivo di tenere le truppe anglo-americane lontane dal confine con la grande Germania, era inevitabile. A parere dello zio la resistenza dei tedeschi all’avanzata alleata sarebbe stata accanita. Quanto agli ebrei, gli zii non avevano dubbi: dovevano scappare, nascondersi, disperdersi; guai a restare in gruppo in quanto più vulnerabili. Loro erano decisi ad andare in Svizzera. Ben presto mi congedarono, salutandomi con un abbraccio affettuoso.

Nel tornare ad Alessandria feci una breve sosta a Valmadonna nella casa del dottor Osimo, che ci viveva da sfollato. Trovai tutta la famiglia riunita intorno ad un lungo tavolo, impegnata in una serrata discussione sul da farsi, e nemmeno dai loro discorsi trassi buoni auspici. Conclusi il mio giro informativo andando a casa dell’amico Antonio Panizza (1), che con la sua forbita dialettica mi convinse che la situazione, non solo degli ebrei, ma di tutta la popolazione, si sarebbe fatta molto precaria in quanto l’avanzata degli eserciti alleati nel Sud d’Italia sarebbe stata presto bloccata, sfruttando abilmente l’orografia della penisola, che si prestava a successive linee di resistenza.

Passando per il centro di Alessandria constatai che i palazzi degli Uffici Pubblici non erano più presidiati dai militari italiani, bensì da quelli tedeschi, in minacciosa tenuta da guerra.

In quello stesso giorno appresi che parte delle truppe italiane, ancora presenti nel presidio della Cittadella, si era arresa ai tedeschi senza opporre resistenza. Più tardi si seppe che le forze tedesche erano alquanto sparute.

Passai una notte insonne e, quando finalmente mi addormentai, sognai che le odiate SS abbattevano con i calci dei loro fucili la porta di casa e venivano a prendermi. Mi svegliai e udii provenire in lontananza colpi di cannone che, come poi emerse, erano diretti contro alcune caserme della Cittadella ancora in mani italiane.

Mi alzai e, accesa la radio, appresi molte altre brutte notizie: Roma, città aperta era nelle loro mani e l’occupazione militare si era già insediata in diversi punti strategici del Centro e del Nord Italia.

Ormai stavo perdendo ogni speranza e dovevo decidere cosa fare e dove andare, prima che fosse troppo tardi. Scartai l’idea di rifugiarmi a Calosso nell’Astigiano dove una mia allieva, Irma Bussi, mi aveva offerto ospitalità per ogni evenienza. Era un paese di collina con tante strade di accesso, quindi poco idoneo. Così pure scartai, per il momento, Dova Inferiore, perché ritenevo la Svizzera il rifugio più sicuro. Pensai, tuttavia, di recarmi subito dall’amico Federico Sacerdote con il quale, qualche giorno prima, ci eravamo accordati di vederci nella sua piccola cascina di Fubine, ad una decina di chilometri da Alessandria.

Mentre pedalavo sulla strada provinciale che si snodava in mezzo alle colline, incrociai molti fuggitivi ex militari, a piedi o in bicicletta, che in abiti borghesi stavano dirigendosi verso i loro paesi.

Federico stava nell’orto del suo piccolo cascinale e raccoglieva pomodori e peperoni. Fu ben contento nel vedermi e ci mettemmo subito a fare piani di fuga verso località dove i tedeschi non avrebbero potuto raggiungerci. Entrambi avevamo cattivi presentimenti, ma pensavamo che i nostri genitori fossero in minor pericolo di noi giovani.

Convenimmo che la meta finale dovesse essere la Svizzera e che intanto potevamo fare tappa in casa di suoi parenti che avevano una villa sul lago di Como.

Passammo il nostro tempo sino a sera a organizzare il viaggio, deciso per il giorno dopo, in treno dalla stazione di Alessandria e con poco bagaglio. Decidemmo di mettere nel nostro zaino anche il regolo calcolatore; con quello strumento in Svizzera avremmo potuto fare calcoli per lavori di progetto e riuscire a campare. (Oggi avremmo optato per un PC portatile).

In casa di Federico non c’era nulla da mangiare salvo pomodori, peperoni, olio e sale e del pane raffermo. Non volevamo farci vedere in paese e non avevamo pretese culinarie. Preparammo quindi una ricca peperonata sia per pranzo sia per cena. Quando venne buio, alla misera luce di una candela andammo a letto su due pagliericci gemelli, ma fu una notte tutt’altro che tranquilla. Alle due mi svegliai con tremendi conati di vomito e dolori viscerali lancinanti. Tremito e respiro affannoso spaventarono l’amico Federico che, sentendo le mie sofferte richieste di aiuto, corse fuori a prendere una grossa latta da benzina che gli serviva per annaffiare l’orto. Lì avrei potuto liberare stomaco e intestino senza insozzare il pavimento. Dovevo però fare attenzione ai bordi taglienti della latta. Prima vomitai senza alcun ritegno e a più riprese; poi, seduto per un tempo interminabile su quella latta dai bordi taglienti, fra atroci dolori di pancia, potei liberarmi di quella micidiale peperonata. Alla fine, con vistosi graffi sul sedere, giacqui come uno straccio sul pagliericcio sino a quando squillò la suoneria della vecchia sveglia.

Invano Federico tentò in tutti i modi di farmi alzare; io assolutamente opposi un rifiuto categorico, sentendomi troppo debole per affrontare il viaggio in bicicletta sino ad Alessandria per poi prendere il treno; certamente sarei caduto in qualche punto della strada tutta curve e dossi … .

Devo anche ammettere di aver pensato che quella indigestione potesse essere un segno premonitore di cui dovevo tenere conto. Ho rivisto Federico a guerra ultimata e mi sono convinto che quel segno era rivolto anche a lui che, a quanto mi raccontò, se l’era passata piuttosto male. Tramontata la possibilità di andare in Svizzera si era rifugiato a Roma; nella lunga attesa della liberazione di Roma da parte degli Alleati visse fra stenti e privazioni che gli rovinarono la salute.

Al pomeriggio di quello stesso giorno mi ricordai dell’accordo che in precedenza avevo preso con alcuni amici di Torino di ritrovarci nella trattoria del signor Fasson a Fiery, qualora la situazione fosse precipitata, per rifugiarci tutti assieme in Svizzera. Era venuto quel momento! Mi misi allora quasi freneticamente ad organizzare quest’altro viaggio. Fu impresa ardua e dolorosa persuadere il papà, che era molto spaventato e insisteva che tornassi con lui a Curtatone. Lo convinsi, con l’aiuto del “bravo portinaio” Gino Costa, e commosso insistette per darmi un modesto peculio.

Dopo molte notti insonni, anche quest’ultima passò in grande agitazione sino alle ore 4,30, quando la sveglia squillò in tempo per prendere il diretto delle 5,20 per Asti e Torino.

Nota

  1. Antonio Panizza fu e rimase il mio miglior amico per molti e molti anni. In Alessandria era notissimo quale direttore della Biblioteca e del Museo Civico. Morì il 4 aprile 1995. Giancarlo Gatto gli dedicò un bel libretto intitolato ”Storie della Piazzetta” – Edizione il Piccolo.

Il mio rifugio in Val Borbera

Introduzione di Mauro Bonelli

Cap. III: Studente fra Torino, Alessandria e Asti

Cap. VIII: Finalmente in Val Borbera

Cap: XVIII: Coi partigiani

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