Introduzione

di Mauro Bonelli

Alla giovanile età di ottant’anni l’ingegner Vittorio Finzi è nonno di undici nipoti, vive da tempo una vita agiata e ricca intellettualmente dopo una carriera direttiva nelle Ferrovie e nell’insegnamento universitario, abita a Genova, città in cui si è trasferito fin dall’immediato dopoguerra.
E’ proprio in questi anni che, come ci dice nella presentazione, la sua mente ritorna a vecchie carte riposte in uno scatolone subito dopo la fine delle vicende che gli erano toccate per alcuni terribili anni. Le aveva messe da parte, e da parte erano rimaste, accantonate dalla ripresa, piena e quotidianamente normale, della vita. Vent’anni di vita normale prima, più di cinquanta dopo. In mezzo il periodo più tragico, per tutti ma ancor più per il giovane ebreo italiano della nostra storia.

Perché l’ingegner Finzi era, ed è, la persona più normale che si possa pensare: vuole fare le cose che tutti vogliono fare, “dedicarsi alla famiglia, agli studi, alla professione”; proprio quello che aveva già in mente quando, studente diciassettenne, va in vacanza in Val Borbera, (come ci racconta nel capitolo primo), e si può ancora godere due anni che, nonostante le avvisaglie di grossi guai in Europa, passano tranquilli tra la famiglia e la scuola (e, non ultima componente di questa tranquilla normalità, alcune simpatiche compagne di studi).

Poi, s’è detto, i sette anni dalle leggi razziali alla Liberazione, attraverso l’inferno della guerra. Questi anni Vittorio Finzi li passa comportandosi nel modo più “normale” possibile, giorno per giorno, cercando di usare tutte le opportunità che ancora restano, senza illudersi ma senza perdersi d’animo, e senza indulgere alla viltà (che, prima che sottomissione all’oppressore, è accettazione della disperazione). Riesce cioè a laurearsi, ad avere anche una borsa di studio, a sostenere l’esame per l’abilitazione alla professione, sempre superando prepotenze dell’autorità fascista che sovrainterpretava le proprie stesse leggi inique.

Dopo l’8 settembre la catastrofe è alle porte e coglie la famiglia Finzi, come tutti gli ebrei alessandrini, non impreparata, ma tragicamente inerme: e le soluzioni che essa si dà, tre diverse per cinque componenti, sono lo specchio dell’atroce condizione di nuda esposizione che schiaccia gli ebrei italiani sotto il regime di Salò.

E tuttavia Vittorio, anche quando trova rifugio in Val Borbera, come ci narra in pagine che superano l’autobiografismo e raggiungono, nella descrizione di quella natura e di quelle persone, punti di vera poesia, schiacciato non è mai, e reagisce con un atteggiamento che è prudente, ma non inattivo: accetta cioè, ad esempio, di mascherare la propria qualità di ebreo (portando, su suggerimento di un sacerdote, la statua di San Rocco in processione), ma non se ne sta rinchiuso, nascosto, ad aspettare che tutto finisca: a poco a poco, si inserisce nella vita della vallata, si prende cura della scuola, fino ad aderire alla resistenza e ad assumere importanti compiti amministrativi e politici.

Vittorio Finzi percorre dunque un cammino, antieroico ed antiretorico al massimo grado, e approda all’attiva partecipazione alla lotta di liberazione. Rappresenta cioè uno dei molti percorsi i quali, da partenze lontane e con modalità che rispecchiano le più varie diversità ideologiche, sociali, caratteriali, convergono nel movimento fondativo della nostra Patria contemporanea. E’ in sostanza ed in accidente una delle incarnazioni dell’italiano del nostro secolo.

Vittorio Finzi è italiano ed ebreo. La sua ebraicità permea ogni pagina dello scritto, senza essere mai esibita. I punti in cui emerge in primo piano sono la discussione con don Marino sul Messia, nella quale la ricchezza di sentimento e di cultura lascia trasparire una evidente rielaborazione della memoria alla luce di una riflessione continuata per tutta la vita; e l’umanissimo orgoglio di nonno per i suoi tanti nipoti che vivono a Gerusalemme (orgoglio naturalmente equivalente per i nipoti in Italia!).

L’Istituto storico di Alessandria ha voluto pubblicare questo testo in occasione della Giornata della Memoria, trovando pieno appoggio e collaborazione nel Comitato per l’affermazione dei valori della resistenza e della costituzione del Consiglio regionale del Piemonte e nella Presidenza del Consiglio provinciale di Alessandria. E’ una pubblicazione nata e pensata soprattutto per le scuole, perché possa essere una base di riflessione e accresca la conoscenza della pluralità delle esperienze che hanno costruito la rinascita del nostro paese.

E’ un momento in cui molti, che vissero quegli anni, riaprono le vecchie scatole in cui avevano riposto i documenti vissuti ed immediati di quelle lotte. Anche molti tra coloro che quegli anni li vissero dall’altra parte. Il Presidente della Repubblica, io credo, ha ragione nel rivendicare anche per molti di loro la buona fede soggettiva ed anche lo spirito di sacrificio da cui furono animati (non certo la giustezza della loro scelta e nemmeno molti degli atti che compirono). Dunque è ancora più giusto che gli scritti come questo si pubblichino e si diffondano soprattutto tra i giovani tanto pericolosamente lontani da quegli anni non nella cronologia, ma nella conoscenza.

Il mio rifugio in Val Borbera

Cap. III: Studente fra Torino, Alessandria e Asti

Cap. V: L’8 settembre 1943

Cap VIII: Finalmente in Val Borbera

Cap. XVIII: Coi partigiani

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