Morfologia e storia di un carnevale monferrino: la Lachera di Rocca Grimalda

Premessa
La “Lachera” è una festa popolare di Carnevale tra le più singolari e misteriose del vecchio Piemonte rurale. Siamo a Rocca Grimalda, nell’Alto Monferrato ovadese, in un’area di frontiera tra cultura ligure e cultura padano-piemontese, in una periferia che (come già ricordava Mario Soldati a proposito delle tradizioni culinarie del paese) sembra dare ragione alla teoria bartoliana della conservatività delle aree marginali (1).
Rocca Grimalda è un antico borgo fortificato posto su uno sperone roccioso che domina la valle dell’Orba. Proprio all’ingresso del paese si erge la mole massiccia del castello feudale, già proprietà dei Malaspina, poi dei Trotti e dei Grimaldi (2). Le origini leggendarie della Lachera parlano di una rivolta popolare contro il feudatario che esercitava lo jus primae noctis sulle spose dei suoi sudditi: di qui la festosa rievocazione, mediante un corteo nuziale mascherato, della vittoriosa affermazione del popolo contro le inique pretese del castellano. Inutile dire che negli archivi non c’è traccia né della rivolta, né del Carnevale ad essa connesso, che pure, secondo la tradizione orale, esiste “da sempre” e fonda una non piccola parte dell’orgogliosa identità municipale dei Rocchesi. Assenti le fonti d’archivio, l’unica fonte bibliografica sulla Lachera di Rocca Grimalda è il volume della Bianca Maria Galanti sulla danza della spada in Italia, prodotto nel 1942 dall’Opera Nazionale Dopolavoro (3): un lavoro basato su informazioni di seconda mano, scritto in un’epoca poco disposta al filologico rispetto delle tradizioni popolari, e che, come vedremo, sarà alla base di tutta una serie di visioni deformanti sulla festa. “Danza delle spade a contenuto insurrezionale” è la definizione che la Galanti attribuisce alla Lachera, in ciò accomunata alla danza degli spadonari di S. Giorio in Val di Susa. L’interpretazione storicizzante non esita a distorcere il significato di costumi e maschere del Carnevale paesano, che del resto proprio l’O.N.D. trasforma in un gruppo folkloristico acclamato, dal 1930 al 1939, nelle parate e nei raduni di regime (4). La ricerca sul campo e la visione diretta della Lachera nel paese d’origine fanno immediatamente percepire che alla base del rituale festivo esistono altri e molteplici significati sommersi. Questa comunicazione non può che fornire una rapida sintesi di una indagine specifica durata diversi anni, le cui risultanze sono attualmente in corso di stampa in un volume ampiamente illustrato (5).

Il rito della questua
Il documento più antico sinora rinvenuto sulla Lachera, è una foto risalente al 1912 che ritrae l’intero gruppo mascherato in posa, attorniato da uno stuolo di bambini, fra le case del paese gremito di neve. Si conta una quindicina di personaggi, tutti col viso ricoperto di maschere di vario tipo, con costumi ricchi ed elaborati copricapi. Unendo le testimonianze orali degli anziani della comunità alle fonti fotografiche precedenti il 1930, possiamo ricostruire abbastanza bene sia i ruoli delle varie maschere, sia la dinamica della festa. Il gruppo, interamente maschile anche per le parti femminili, era costituito da Sposo e Sposa, Damigella, due Guerrieri o Zuavi armati di spada, due Laché vestiti di bianco con alti copricapi mitraformi adorni di nastri multicolori, quattro Trappolini con la frusta, quattro Mulattieri in costume da carrettieri monferrini, un Buffone o Bebè in vesti femminili, con grottesca cuffia orecchiuta. Accanto a questi personaggi, due o tre musicanti (violino, clarinetto, chitarra o mandolino) per accompagnare le danze di rito, consistenti nella lachera in movimento e nei due “balli rotondi” della giga e del calisun, eseguiti durante le soste. La Lachera tradizionale, infatti, era una mascherata di soli uomini inserita all’interno di un rituale di questua itinerante: due elementi questi (maschilismo e questua), che sembrano caratterizzare gran parte dei Carnevali popolari di impronta contadina. Giravano per il paese, poi giravano per le cascine, al mattino, al giorno di giovedì grasso. Allora, tutti percepivano (sic) questi cascinali e ci davano tutti qualche cosa. Chi ci dava un pollo, chi ci dava un coniglio, chi ci dava un salame, due bottiglie di vino… Partecipavano tutti per questa Lachera. Che poi la sera, quando arrivavano, cominciavano a far un po’ di festa, poi si faceva cuocere qualcosa, la mangiavano e poi ballavano. E poi durava magari tutta la settimana, la festa (testimonianza di Giuseppe Bobbio, agricoltore, classe 1909). Un corteo nuziale in costume che attraversa tutto il paese e il concentrico campestre, toccando cascine e frazioni del circondario. Una mascherata festosa, piena di colori (fiori finti, nastri, scialli, ori) e di rumori e di suoni (schiocchi di frusta, campanelli e sonagli, musiche gaie e frizzanti) che attraversa la campagna addormentata sotto la neve, seguita da frotte di ragazzi vocianti e che in ogni cascina viene accolta con gioia e grande generosità. Appare subito chiara la natura di rito propiziatorio della fertilità di questa festa popolare calendariale: questua di fine inverno e d’inizio di stagione, intesa a suscitare e ri-suscitare la forza germinativa della natura con l’esibizione di colori, rumori, musiche, salti, colpi, risa. Ribadiscono il valore di grande esorcismo contro l’inverno, la carestia, la morte, sia la presenza centrale della coppia di Sposi (auspicio di fecondità), nonché le numerose e ricche scorpacciate (auspicio di buoni raccolti).

Morfologia e ascendenze
Le maschere come larvae, spirito degli antenati e il corteo mascherato come caccia selvaggia, processione dei morti che tornano: questo rapporto con l’aldilà instaurato dai riti di iniziazione, come dimostrano gli studi di Wesselofsky, Lazzerini, Ginzburg, si concretizza nei Carnevali contadini in maschere appartenenti alla familia Harlechini. Ne fanno indiscutibilmente parte, nella Lachera di Rocca Grimalda, le figure dei Lacché che hanno la funzione di Arlecchini (i primi Zanni erano biancovestiti, e il bianco è sia il colore dei fantasmi che degli iniziati) e le maschere dei Trappolini, anch’essi derivanti da Zanni delle origini della Commedia dell’arte. Nella mascherata anteriore alla trasformazione della Lachera in gruppo folkloristico si colgono alcuni tratti arcaici inconfondibili, caratterizzanti le “feste di primavera” comuni ad un’area di diffusione europea (6). Vediamone alcuni:

  • gli abiti bianchi, le mitrie infiorate, i salti e i balli dei due Lacché, che all’interno della mascherata svolgono la funzione di maschere-guida;
  • i copricapi fioriti, i sonagli alla vita, le fruste schioccate dai Trapulin, che fanno largo al corteo e lo annunciano con il fragore dei colpi e delle sonagliere;
  • la presenza dei due Spadofori o Zuavi, che fungono da guardia d’onore della coppia di Sposi e che recano anch’essi in testa (come i Trappolini) colbacchi di fiori artificiali.

Molti di questi tratti (dalle mitre ai copricapi fioriti ai sonagli e ai nastri multicolori) paiono rinviare espressamente alle Feste dei Folli e alle cerimonie delle Società giovanili esercitanti, in tutta l’Europa preindustriale, la funzione di custodi dell’ordine tradizionale e in particolar modo della pratica festiva. Il Pola Falletti, che di queste “società gioiose” è stato il principale indagatore, sottolinea come tali Badie svolgessero anche il compito di milizia armata (con armi simboliche come spade o alabarde), accettato dalle autorità con precisi confini spazio-temporali, come controllo dei confini del paese e dell’osservanza degli statuti regolanti la vita comunitaria (7). Il fatto che talvolta, come in Val Soana al tempo del tuchinaggio, la Badia giovanile si sia fatta “vindice e strumento” della lotta antifeudale (Pola Falletti 1937:381-84), ci fa supporre che qualcosa del genere possa essersi verificato a Rocca Grimalda, dove la Lachera assurge a simbolo dello spirito di autonomia e di ribellione della comunità nei confronti di prevaricazioni e soprusi da parte della nobiltà e delle classi dominanti.

Jus primae noctis
La tradizione locale fa risalire la rivolta cui si ispira la Lachera ad una sollevazione popolare contro Isnardo Malaspina, signore di Rocca nel XIII secolo, ma non esiste alcuna prova documentale al riguardo, mentre ben documentata è la strage dei Trotti di Montaldeo avvenuta ad opera d’un’esplosione di collera popolare nel 1528, in un’epoca in cui anche Rocca, come Feudo imperiale (dal 1438 a metà ‘500), era dominata dalla famiglia dei Trotti, sì da mutare il nome da Rocca Val d’Orba in Rocca dei Trotti (8). Un foglio dattiloscritto anonimo, rinvenuto nel Fondo ENAL dell’Archivio di Stato di Alessandria (senza data ma probabilmente degli anni ’20), fornisce una curiosa interpretazione dell’origine della festa. Riportiamo integralmente tale testo, intitolato
Leggenda della mascherata “La Lacchera” (sic):

Nei tristi tempi in cui usavano i feudi, nel 1642, il feudatario, oltre ad altri e molti diritti, aveva quello del “Ius primae noctis” il diritto della prima notte; per cui ogni sposo la sera del dì del suo matrimonio doveva condurre la sua sposa in castello. Ora avvenne che un dì sposatosi un giovane di distinta ed agiata famiglia, questi si ribellò a quel brutale diritto feudale e s’impuntò di non condurre la sua sposa al castello. Indispettito il feudatario per la non comparsa della sposa, comandò a due sbirri suoi, di procedere all’arresto degli sposi, ma ebbero una tale accoglienza che, quantunque fossero buone lane, dovettero svignarsela e tornare al Castello a mani vuote, contenti d’aver salva la pelle. Per tutta la notte in casa degli sposi fu una continua veglia di molta gente, per la tema che il feudatario più inferocito, spedisse un numero maggiore di sbirri ad effettuare il suo disegno. L’attesa fu vana. Forse il feudatario capì che quello era il segnale di altro e maggior moto rivoluzionario e perciò non fece più nulla. Nel frattempo uno dei componenti la veglia, manifestò l’idea che a festeggiare un tale avvenimento si dovesse improvvisare una mascherata che con gli sposi percorresse festosamente le vie principali del paese e così fu. Nel dì fissato (il giovedì grasso) la mascherata uscì dalla casa degli sposi. Precedevano per lo sgombero delle vie a dar l’annunzio della mascherata un Arlecchino ed un tripolino (sic). Seguivano con gli sposi i Laccheri in elegante e grazioso costume, che in ossequio agli sposi, marciavano ballando un mirabil modo di trombe e violini. Dietro agli sposi gentiluomini d’onore in elegante costume; e per scorta di sicurezza una compagnia di uomini in costume di gente d’armi con le spade sguainate. Detta mascherata continuò a rinnovarsi ogni anno e fu sospesa durante la guerra mondiale 1915-1918; ed è molto da lodarsi che ora se ne ripristini l’usanza (9).
Come già ricordava il Vidossi recensendo l’opera della Galanti, che aveva classificato la Lachera come danza a contenuto storico (e a carattere insurrezionale), non bisogna sottovalutare il significato simbolico di queste danze tradizionali, dato che quasi sempre il riferimento storico è o fittizio o secondario, di natura eziologico-interpretativa, e che comunque, anche ove il riferimento storico fosse reale, non si escludono mai sovrapposizioni e mistioni diverse. Vidossi propendeva dunque a vedere in tali danze tracce di riti arcaici altrove scomparsi (10). Anche il Toschi non esita a sostenere che il processo di storicizzazione è un a posteriori e che in quasi tutte queste feste d’inizio d’anno il tema nuziale e quello agonistico sono legati a riti di fertilità, ma che il “primitivo e vero significato del combattimento” rituale (tra vita e morte, estate e inverno, anno vecchio e anno nuovo) si è prima appannato, poi perso strada facendo, sparendo dalla coscienza di chi lo esegue e venendo sostituito dalla celebrazione di un fatto storico (solitamente la liberazione da nemici o tiranni)(11). Così è per la Baìo di Sampeyre (cacciata dei Saraceni dalla valle), così per il Carnevale di Ivrea e di Rocca Grimalda (liberazione dal tiranno prevaricatore), così per i Carnevali alessandrini (liberazione dall’assedio del Barbarossa) ecc. Nel caso della Lachera la “rievocazione storica”, ufficializzata prima dall’OND (1930-39) e poi dall’ENAL (1954-64) che trasformano la festa popolare in un Gruppo folkloristico, appare quasi sempre conflittuale rispetto ai segni e alle funzioni del rito primario. Ne deriva che i Lacché, gli Zuavi, i Trappolini, il Bebè ecc. vengono artificiosamente costretti nella camicia di forza della ricostruzione mitico-storica, con frizioni, alterazioni, deformazioni e censure di non poco conto.

Lachera, danza delle spade? 
Di forme rituali preesistenti alla storicizzazione delle danze armate ha parlato anche un grande studioso della danza, l’etnomusicologo Kurt Sachs, affrontando il tema della moresca (12). Mentre gran parte degli studiosi tradizionali indicavano nel conflitto fra saraceni e cristiani (secc. IX-X) l’origine di questa danza guerriera, egli, sulla base di una indagine comparativa vastissima, evidenzia una molteplicità di connessioni tra la morris dance inglese e una serie di altre danze, come i bailes cossies e il bal de cavallets delle isole Baleari, numerose danze bulgare, rumene e albanesi, lo zamalzain basco, la Schimmelreitermaske tedesca, per finire con le danze estatiche dell’isola di Giava e quelle del Pamir. Per Sachs l’insieme di queste danze è rinviabile alla sfera dei riti apotropaici di fertilità diffusi nel periodo neolitico: se la matrice è comune, gli sviluppi successivi hanno visto percorsi diversi fin dal medioevo (Sachs: 370-71). Rispetto alla maggioranza delle “danze armate” alpine, nella Lachera non c’è “balletto armato”, non ci sono evoluzioni o volteggi di spade né giochi d’armi (come in Val di Susa), non ci sono duelli (come a Breil), non c’è scontro guerriero (come invece a S. Giorio). Le spade, in mano ai due Zuavi, si limitano a fare un arco protettivo sulla coppia di Sposi. Le spade incrociate sulla testa degli Sposi in alcuni precisi momenti del rito-spettacolo, sono spade di difesa, non di offesa. La Lachera dunque non ha (almeno nella versione giunta a noi) carattere guerriero, non si può dunque definire una moresca. Ciò nonostante la Lachera mantiene nel suo complesso, per la danza dei Lacheri (piena di brio ed energia), per le sonore staffilate dei Trappolini, per lo sfoggio di costumi preziosi, per la tranquilla compostezza del corteo, un preciso carattere di esibizione di forza popolana.
Controversa rimane dunque l’ascrizione della Lachera nel novero delle danze delle spade, anche se il mio parere è che non basta la caduta di un tratto (“giochi di spada”) a cancellare i tanti tratti comuni che imparentano il Carnevale di Rocca Grimalda con le danze armate piemontesi e alpine in genere. In questo senso, penso che sarebbe utile verificare l’ipotesi avanzata dalla studiosa inglese Violet Alford (13) di un legame fra danze delle spade e riti d’iniziazione dei lavoratori metallurgici, corrispondendo quasi sempre la localizzazione di tali sopravvivenze rituali con aree minerarie. Ipotesi ardita e suggestiva, che nel caso nostro risulterebbe confermata, per l’area ovadese cui appartiene Rocca Grimalda, dalla presenza storica di attività estrattive (rame e oro) fin dalla più remota antichità (14).

Lachera, Carnevale alpino?
Se superiamo la visione municipalista e analizziamo il Carnevale di Rocca Grimalda nei suoi tratti morfologici essenziali, possiamo affacciare l’ ipotesi che la Lachera sia inglobabile (e interpretabile) solo in un sistema di segni appartenenti ad una cultura festiva di tipo alpino, di notevole arcaicità e di diffusione europea, comprendente rituali di popoli che vanno dalla Provenza alla Savoia alla Svizzera al Tirolo alla Slovenia. Rocca Grimalda, in effetti, pur appartenendo all’Alto Monferrato, si trova a ridosso delle montagne che separano la provincia di Alessandria dalla provincia di Genova: montagne generalmente chiamate “Appennino ligure-piemontese”, che però, a quanto ci dice la scienza geologica, fanno ancora parte dell’arco alpino, il cui inizio non è più ravvisabile nel passo di Cadibona, come ci hanno insegnato sui banchi di scuola, ma proprio nel cosiddetto “gruppo di Voltri” ad ovest di Genova. A questa ipotesi, comprovata da un’ingente massa di isomorfismi ravvisabili nei rituali festivi, si può affiancare quella di un più vasto (ed oggi disperso e frantumato) sistema di ritualità festiva, le cui esili tracce (tutte da approfondire e verificare) sarebbero nella presenza della maschera del Lacchè testimoniata in un’area molto vasta, dal Monferrato alle valli ladino-dolomitiche, dalla Toscana all’Appennino modenese (15).
Nella Lachera attuale non c’è una divisione netta in maschere “da bello” e maschere “da brutto”, com’è tradizionale e tuttora presente nei Carnevali dell’arco alpino centro-orientale, dalla Lombardia alla Slovenia friulana (16). Tuttavia, una serie di indizi ci fanno percepire l’esistenza di una tale ripartizione mitico-rituale nel passato. Un utile indicatore di tale originaria divisione consiste nella presenza (o persistenza), nel costume delle maschere, dei guanti bianchi come segnale di distinzione, raffinatezza, signorilità. Nella Lachera tradizionale indossano guanti bianchi gli Sposi, i Lacchè, gli Zuavi, la Damigella e quello strano personaggio del Bebè, ambigua figura di Buffone maschio-femmina, uomo-capra. Sono otto personaggi, dunque (proprio la metà dell’organico tradizionale) che paiono così collocarsi simbolicamente nel settore dei “Belli”. Mulattieri e Trappolini, invece, come “maschere di gruppo”, rappresentano dei mestieri reali del popolo di Rocca e perciò indossano degli abiti da lavoro (“rovesciati” nel caso dei Trapulin: altro curioso elemento rituale) e non sono guantati, ma recano o ostentano gli strumenti del loro lavoro: bastoni e staffili.

Conclusione 
Dagli anni ’30 ad oggi, con la caduta della funzione rituale, la Lachera si è ridotta ad una sfilata folkloristica, festosa e colorita senz’altro, ma un po’ ermetica e stilizzata (spesso non compresa dagli stessi partecipanti), essendo venuti meno i tratti significanti principali, vale a dire la funzione magico-propiziatoria della questua itinerante e il gioco (anch’esso magico-propiziatorio) dell’inversione sessuale personificato da una Sposa, una Damigella e un Bebè in vesti femminili ricoprenti corpi maschili. Trovo dunque molto positivo che l’attuale Gruppo folkloristico, animato da Giorgio Prato e Giorgio Perfumo, oltre a far opera di proselitismo fra i giovani della comunità, tenti di recuperare alcune delle caratteristiche antiche della Lachera, tra cui l’uso delle maschere e il personaggio importantissimo del Buffone o Bebè. Le difficoltà non sono poche e le frizioni tra filologismo ed esigenze spettacolari (ovvie per un Gruppo folkloristico organizzato) inevitabili, ma quando, come in questo caso, la passione per la ricerca e l’orgoglio municipale si fondono, il risultato non potrà non essere interessante. In conclusione, in questo come in tanti altri Carnevali, troviamo un intreccio di storia e leggenda, mito e rito, forme simboliche e funzioni sociali: ma il significato che ancor oggi la gente di Rocca attribuisce alla “danza contro il tiranno” tramandata dai vecchi, ci fa capire come un fatto folklorico possa mantenere intatto, alle soglie del Duemila, il suo valore di mito di fondazione dell’identità collettiva di un paese.

FRANCO CASTELLI
Centro di cultura popolare “G.Ferraro”/Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria


Note

1) MARIO SOLDATI, Vino al vino. Terzo viaggio, Milano, Mondadori, 1976, pp. 254-55. Le norme areali di Matteo Bartoli, nate sul terreno della linguistica storica, sono state validamente applicate in campo demologico da Vidossi e Santoli. Cfr. in proposito, ALBERTO MARIO CIRESE, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo, 1973, pp. 287-93.
2) FRANCESCA CACCIOLA, Sul feudo della Rocca, Comune di Rocca Grimalda, Accademia Urbense, Ovada, 1994.
3) BIANCA MARIA GALANTI, La danza della spada in Italia, Roma, Edizioni Italiane, 1942. Più recentemente, hanno trattato della Lachera, PAOLO GIARDELLI, Il cerchio del tempo. Le tradizioni popolari dei Liguri, Genova, Sagep, 1991 e GIORGIO PERFUMO, La “Lachera” di Rocca Grimalda, “Urbs”, V (1992), 9.
4) OPERA NAZIONALE DOPOLAVORO, Costumi musica danze e feste popolari italiane, Roma, Ed. O.N.D., 1935.
5) FRANCO CASTELLI, La danza contro il tiranno. Leggenda, storia e memoria della Lachera di Rocca Grimalda, Comune di Rocca Grimalda, Accademia Urbense, Centro di cultura popolare “G.Ferraro”, Ovada, 1995.
6) PAOLO TOSCHI, Le origini del teatro italiano, Torino, Boringhieri, 1955.
7) GIULIO CESARE POLA FALLETTI DI VILLAFALLETTO, Le gaie compagnie dei giovani del vecchio Piemonte, Casale Monferrato, Miglietta, 1937; reprint con introduzione di P. Grimaldi, Torino, Omega, 1994; Associazioni giovanili e feste antiche, loro origini, Torino, Comitato di difesa dei fanciulli, 4 voll., 1939-42.
8) GIORGIO DORIA, Uomini e terre di un borgo collinare dal XVI al XVII secolo, Milano, Giuffré, 1968; GIUSEPPE PIPINO, La strage dei Trotti di Montaldeo (1528) e il ritrovamento dei loro resti (1817), “La Provincia di Alessandria”, 1987, 283/2.
9) Archivio di Stato di Alessandria, Fondo ENAL Ufficio Provinciale, 1954.
10) GIUSEPPE VIDOSSI, recensione a B.M.Galanti, La danza della spada in Italia (1942), “Lares”, XIV (1943), 3.
11) P. TOSCHI, op. cit., cap. XII.
12) CURT SACHS, Storia della danza (1933), Milano, Il Saggiatore, 1994.
13) VIOLET ALFORD, Sword Dance and Drama, London, Merlin Press, 1962.
14) GIUSEPPE PIPINO, I giacimenti metalliferi del Piemonte genovese, “Novinostra”, XXII (1982), 2, 4.
15) Sui Carnevali veneti e ladino-dolomitici, si veda CESARE POPPI, Il bello, il brutto e il cattivo. Elementi d’analisi simbolica ed estetica delle maschere della Val di Fassa, in AA.VV., Faceres, Istituto Culturale Ladino, Vigo di Fassa, 1988; CRISTINA IANNIELLO, Il Carnevale a Comelico Superiore, “Mondo Ladino”, XII (1988), 1-4; GIAN LUIGI SECCO, Viva viva Carnevale! Maschere e riti nei carnevali della montagna veneta, Belluno, Belumat, 1989. Per la Toscana, la maschera del Lacché viene segnalata nel secolo scorso da GIOVANNI GIANNINI, Il Carnevale nel contado lucchese, “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, VII (1888); per l’Appennino modenese, si veda ENRICO BARUFFI, Un Carnevale montanaro: la mascherata di Benedello, “Il Cantastorie”, XX (1982), 8.
16) Per i Carnevali delle Prealpi lombarde, si vedano le ottime analisi di ITALO SORDI, Teatro e rito. Saggi sulla drammatica popolare, Milano, Xenia, 1990.