Gli orsaresi nella Grande Guerra

Ad Orsara Bormida, borgo monferrino di 2000 anime, la vita dell’intera comunità cambia radicalmente in un solo triennio del primo Novecento, quello della prima guerra mondiale che l’Italia combatte dal 1915 al 1918.

La grande storia vi irrompe improvvisa e violenta; l’intera popolazione di famiglie contadine, pur avvezze a grandi sacrifici e ancorate al senso del dovere e a cristiana rassegnazione, ne sarà provata e travolta.

Da un ventennio diversi giovani e anche padri di famiglia, privi di garanzie di sussistenza o di lavoro continuativo nei coltivi di meliga e di grano e nei vigneti del territorio, hanno dovuto andarsene all’estero da disperati, benché forte fosse il radicamento al paese – patria di ideali e di esperienze condivise – modernizzato nel quarantennio postunitario da qualificati servizi di welfare, quale patrimonio civile e culturale di tutti: il presidio medico gratuito ai poveri, l’asilo e il primo triennio della scuola obbligatoria, fruibile anche da adulti; ed un funzionale forno pubblico, pozzi comunali e lavatoi praticabili, strade conservate con cura e illuminate, ufficio postelegrafonico, buona viabilità e servizio di trasporti per persone e merci alla vicina stazione ferroviaria di Strevi.

La gente, da sempre convinta che miseria , malattie, calamità naturali e guerra siano irrimediabili sventure, dall’entrata in guerra dell’Italia è costretta a nuove sfide di sopravvivenza, a fatiche smisurate dopo la mobilitazione degli uomini, ad attese interminabili di notizie dal fronte e ad orfanità provocate da un mondo che funziona alla rovescia, dove la morte vale di più della vita.

Dall’aprile 1915 infatti 162 uomini sono inviati in territorio in stato di guerra; nel biennio seguente ne partono altri centodieci, una ventina nel 1918.

Massicciamente in fanteria, qualche decina in artiglieria, diversi nel genio, e alcune unità in altri corpi, hanno mediamente trenta-trentacinque anni, parecchi sono ultraquarantenni o poco più che ventenni, la metà è sposata, un centinaio ha figli. Si adatteranno alla violenza della guerra con l’obiettivo fisso di sopravvivere e di tornare a casa; l’attesa di notizie dalla famiglia sarà per loro l’uscita di sicurezza dal caos quotidiano del fronte e del tremendo disagio di dover considerare nemici da uccidere altri uomini, sconosciuti.

Altri, esonerati, continuano l’attività anteguerra come operai militarizzati in centri di produzione bellica o come addetti a servizi ritenuti strategici, anche agricoli.

Dei 386 richiamati alle armi, ventuno muoiono al fronte, in campi di prigionia o per malattie causate dalla guerra. I sopravvissuti, anche feriti e mutilati o già prigionieri, vivranno tra amarezze e tardivi sussidi. Gli emigrati non rientrano per combattere, bollati come disertori con infamia delle rispettive famiglie, sono amnistiati anni dopo.

Il paese dei primi anni Venti risulta demograficamente depresso dalla ridotta vis generativa del quinquennio precedente e dall’esodo incrementale verso terre lontane.

Luisa Rapetti, Gli Orsaresi nella Grande Guerra, Acqui Terme, Impressioni Grafiche, 2017