Martiri della Benedicta Manifestazione in loro onore

20 March 2003

MANIFESTAZIONE IN ONORE DEI MARTIRI DELLA BENEDICTA | Sacrario della Benedicta sabato 5 aprile 2003

Orazioni ufficiali:

  • Stefano Persano – Sindaco di Bosio;
  • Fabrizio Palenzona – Presidente della Provincia di Alessandria;
  • Enzo Ghigo- Presidente della Regione Piemonte;
  • Sen. Raimondo Ricci – Rappresentante dei comitati della Resistenza e Antifascisti di Alessandria e Genova;
  • Carlo Azeglio Ciampi- Presidente della Repubblica italiana.

Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi

Signori Presidenti delle Regioni Piemonte e Liguria, Senatore Ricci, Onorevoli Parlamentari, Presidente Palenzona, Sindaco Persano, Autorità civili, militari e religiose, Caro Don Berto, Cari parenti delle vittime dell’eccidio, Signore e Signori, l’omaggio che oggi rendiamo al Sacrario della Benedicta non vuoi essere soltanto una risposta, solenne e corale, agli atti vandalici che hanno vilmente offeso, pochi mesi fa, questo luogo della memoria.

Ogniqualvolta noi ci rechiamo, come in pellegrinaggio, in località che sono state teatro di barbari eccidi, nel corso della Resistenza, vogliamo riconsacrare noi stessi, e la Repubblica, ai principi che guidarono quella lotta.

Fu, come già nel Risorgimento, lotta per la liberazione della Patria occupata. Fu insieme lotta per la libertà. In essa ha le sue radici la scelta della Costituzione repubblicana, che la Nazione nuovamente libera volle darsi.

Gli ideali della Resistenza, a cui tanti uomini e donne generosamente sacrificarono la loro vita, in Italia, come in tutti i Paesi dell’Europa occupata dal nazismo, furono la sorgente viva da cui trasse nuova forza il movimento federalista europeo. All’indomani del conflitto in cui erano periti decine di milioni di uomini ci dicemmo: mai più guerre fra noi.

La strada che ha condotto alla nascita dell’Unione Europea — che sta per allargarsi ad abbracciare quasi tutto il nostro continente — è stata lunga. Non l’abbiamo ancora percorsa tutta. Ma abbiamo costruito istituzioni che offrono una nuova speranza — una nuova certezza di pace alle generazioni future.

Queste istituzioni propongono anche al mondo un modello esemplare di convivenza creativa tra popoli che furono per secoli nemici – benché fossero tutti figli di una stessa civiltà, fondata su ideali comuni.

Le speranze di pace dell’umanità si affidano ancora al nucleo di istituzioni internazionali nate dopo la seconda guerra mondiale – prima fra tutte l’Organizzazione delle Nazioni Unite – con l’impegnativo obiettivo di garantire una convivenza pacifica fra tutti i popoli.

Oggi che abbiamo il cuore colmo di angoscia per una guerra che le istituzioni internazionali non sono riuscite ad evitare, dobbiamo riaffermare la convinzione che queste istituzioni non debbono essere messe da parte come inutili, ma debbono anzi essere rafforzate; perché esse soltanto ci danno speranza nel futuro: speranza di pace per i nostri figli e i figli dei figli.

Possa il ricordo di coloro che diedero, con abnegazione e coraggio, la loro vita per il bene della Patria, infonderci un rinnovato impegno per la piena realizzazione degli ideali che li ispiravano. Non li abbiamo dimenticati, non li dimenticheremo. La memoria incancellabile del loro sacrificio è la fonte del nostro impegno per la costruzione di un’Europa e di un mondo di pace.


Discorso del Presidente della Regione Piemonte Enzo Ghigo

Ci sono occasioni in cui la parola si fa impotente, il linguaggio tradisce il pensiero, il vocabolario non riesce a trovare il significato giusto, e la glossa di quello che stai cercando di dire si aggroviglia in un dedalo inestricabile di retorica.

Sono situazioni pericolose perché la parola che cerchi, quella che dovrebbe significare il tuo pensiero diventa ostaggio delle passioni, e si perde nelle formule più fruste e scontate. Capita quando ci si trova a fare i conti con la memoria, con quel lacerto di eredità private, intime, familiari, magari domestiche, e che si aggroviglia ancora di più quando ti interroghi sul senso collettivo, sulla dimensione comunitaria del passato.

La memoria fa brutti scherzi, dilata i tempi, modifica spesso in modo impercettibile le dimensioni, i fatti, le cause e, persino, le ragioni. Solo allora scopri che ti sei avventurato su di un terreno minato, pericoloso, impervio, in cui ogni zolla rischia di trasformarsi in un ostacolo insormontabile, invalicabile.

Capita, è capitato, ogni volta che nel nostro Paese si tenta di dare un significato al nostro passato, a quella storia che per troppo tempo ha diviso e separato i suoi cittadini. Capita, è capitato, tutte le volte che, abbandonando la retorica paludata delle celebrazioni, la panoplia delle battaglie di fazione, si cerca di scovare una traccia che unisce, un cammino comune, una memoria condivisa.

È proprio in questi frangenti, quando si avverte la necessità di rinnovare e, spesso, di ritrovare il significato della comune appartenenza che emergono meschine logiche tribali e la storia si trasforma in corpo contundente e viene brandita come arma impropria di lotta politica.

Non possiamo, proprio in questa occasione, cadere nel peccato più grave che gli uomini delle istituzioni possono commettere, quella diserzione dalle proprie responsabilità che si chiama ignavia intellettuale.
La Pasqua di sangue della Benedicta non può – e non deve – essere liquidata in una parata di buoni sentimenti e di ricordi. Sia chiaro, ricordare è un compito primario, una missione ineludibile per ogni società che voglia ancorare il proprio futuro.

Ma la memoria non è una reliquia, anche se la tradizione può esprimersi nel culto vivo di un sacrificio. E la tragedia del 7 aprile 1944 e dei giorni successivi reclama una storia che rifugga dall’agiografia, che abbandoni la mitizzazione accomodante e falsa: lo richiede il rispetto per le 147 vittime della furia criminale della dittatura nazifascista, giovani che in quella lontana primavera immolarono la loro vita per la libertà.

Ma lo richiede la storia che quando si presta alle manipolazioni di parte, alle spregevoli bassezze di fazione, alle strumentalizzazioni più volgari, aggiunge odio all’odio, mistifica la verità e, in ultimo, incide ferite profonde nel tessuto, già debole e precario, della nostra convivenza.

La memoria pacificata si fonda anzitutto sulla verità storica, sullo scrupoloso vaglio della documentazione, sull’onore del sacrificio unito alla lucida analisi degli eventi: tutto il resto è menzogna, e la menzogna, per dirla con Hobsbawm, porta alla tragedia. Ripercorrendo i fatti della primavera del 1944, i tempi cogenti dell’attualità aggiungono elementi di riflessione, e lo sgomento per le stragi di allora si unisce al dramma della guerra in corso.

Ha scritto Simone Weil che le vittime devono perdonare i carnefici, che, anzi, devono persino comprenderne le ragioni, ma a patto che la ragione della storia non rinneghi la verità e che la giustizia sottragga il contenzioso alle faide e ai rancori privati.

Nel nostro Paese, nella nostra Regione, in quel drammatico ’44 la convivenza civile è stata lacerata da un conflitto mondiale che si è riverberato, nei nostri paesi e nelle nostre città, strappando affetti, mortificando dignità, ferendo intere comunità. Uno dei più autorevoli storici italiani, Claudio Pavone, ha posto una pietra miliare nella storiografia sulla lotta di liberazione in Italia, proprio interrogandosi su questo tema: l’intreccio tra conflitto mondiale, lotta partigiana e guerra civile.

Eppure come in mantra ossessivo che, periodicamente, riemerge, questo passato che non passa e che come un macigno incombente sulla nostra storia comune, ci impedisce di fare i conti con la nostra storia. Nella testimonianza di Marina Scarsi sui ragazzi del Borgo di Ovada è racchiuso tutto il dramma di questa storia. Sono parole struggenti e lancinanti, di una guerra che è tutte le guerre: gli spazzolini gettati a terra, i corpi dilaniati dei suoi amici, le carte da gioco sparse in terra e le provviste gettate in un angolo.

È la quotidiana violenza della guerra: in ogni latitudine e in ogni tempo. Eppure, ci insegnano proprio questi testimoni, la pietas per l’orrore non può mai essere barattata con la menzogna e la diserzione dalle proprie responsabilità. “Siamo stati lassù sino a sera – racconta Martina Scarsi – Ci siamo stati tanto e poi non potemmo fare diversamente che lasciare tutto lì. Tra poco si sarebbe fatto buio”.

E nella straziante sepoltura in “casse improvvisate con pezzi di legna in parte bruciati, recuperati attorno alla Benedicta” è raccolto tutto il dramma ma anche il significato umano della tragedia. “Non avevamo ancora vent’anni”, non avevano ancora vent’anni: eppure ci hanno lasciato un testamento fondamentale della nostra libertà e della nostra democrazia.

Ebbene, ritengo che ricordare debba significare rievocare quei fatti, quelle lotte, quei morti. Ma il modo migliore per onorare queste giovani vite sacrificate per quei valori che oggi fondano la nostra convivenza, sia soprattutto rinnovare la lezione che, con il loro esempio, hanno saputo impartire.


Discorso del Presidente della Provincia di Alessandria Fabrizio Palenzona

Signor Presidente,

La ringrazio ancora per la Sua presenza in questo luogo che costituisce il simbolo del sacrificio di uomini e donne che, con ferma e consapevole determinazione, hanno lottato per la libertà e la giustizia pagando questo loro impegno con il valore più alto che sia stato posto nelle mani dell’uomo: la vita.

Quassù, si è compiuto un eccidio la cui descrizione affido alla cruda narrazione di Giampaolo Pansa, illustre giornalista e scrittore della nostra terra, che nel suo libro “Guerra partigiana tra Genova e il Po scrive:

“All’alba di venerdi 7 aprile mentre più accanito riprendeva il rastrellamento dei partigiani dispersi sui monti, alla cascina Benedicta vennero iniziati i preliminari del massacro… Settantacinque prigionieri vennero condotti nel cortile dell’antico convento: per la maggior parte erano giovani sui 19-20 anni. Un civile annotò i loro nomi; poi, spogliati di ogni effetto personale che servisse a riconoscerli, i partigiani vennero spinti a gruppi di cinque lungo il sentiero che porta al torrente Gorzente.

Qui li attendeva un plotone di fascisti, comandato da un ufficiale tedesco. Le esecuzioni, iniziate a metà mattina, proseguirono con ritmo meccanico sino al sesto scaglione, allorché un patriota, nascosto su un costone dell’Arpescella e sconvolto da ciò che stava vedendo, scaricò il proprio mitragliatore contro la squadra fascista.

I repubblichini si sbandarono e fuggirono verso la Benedicta. Poco dopo, però, le esecuzioni ripresero e continuarono per tutta la giornata. Giunta la sera, alcuni prigionieri furono costretti a scavare un’ampia fossa nella quale furono gettati novantasette cadaveri…”

Più avanti Pansa descrive minuziosamente i rastrellamenti dei giorni successivi che portarono il bilancio dei fucilati a 147 a cui si aggiungono i circa 400 giovani deportati nei campi di sterminio nazisti di Gusen e Matausen, pochissimi dei quali fecero ritorno.

Questa, Signor Presidente è la “Benedicta” per noi, è la “Benedicta” per questi partigiani che hanno vissuto nel loro cuore, prima ancora che sulla loro pelle, la Lotta di Liberazione per ridare libertà, democrazia e dignità al nostro Paese. E oggi siamo onorati della Sua presenza, perché ogni Istituzione e ciascuno di noi vede in Lei Signor Presidente, il garante della Repubblica, nata dalla Resistenza.

Ragazzi tra i 19 e i 20 anni hanno dato la loro vita, per la nostra libertà. Non possiamo e non vogliamo dimenticare il loro eroico sacrificio.

Non è retorico oggi, indicare ai giovani la strada dell’impegno e della corresponsabilità. E’ nostro dovere dire alle nuove generazioni che la vita è una conquista continua, giorno dopo giorno; che la libertà di ciascuno finisce dove inizia la libertà degli altri; che la giustizia sociale è uno dei fondamenti della convivenza umana; che la solidarietà rappresenta uno dei motivi fondamentali della nostra civiltà; che la felicità della vita nessuno la regala, anche se c’è chi vuol far credere nelle pericolose scorciatoie del tutto facili e del tutto presto. Ma illudere i giovani non è certamente meritorio.

Oggi, Signor Presidente, la Sua presenza in questo luogo ha riempito di gioia e di gratitudine il cuore di chi, anziano, ha conosciuto i “martiri della Benedicta”: come compagni di lotta o, per l’affetto familiare ne porta nel cuore i segni indelebili .

Ma Le siamo altresi’ grati, e lo affermo con forza qui, dove sul sangue di questi martiri si posero le basi della nostra democrazia, per il Suo impegno quotidiano a tutela delle Istituzioni, secondo i valori contenuti nella Carta Costituzionale. In quella Carta ci sono i principi irrinunciabili che rappresentano i cardini fondamentali della nostra Repubblica.

Oggi, se ci guardiamo attorno, vediamo nuovamente lutti e sofferenze. Allora dobbiamo avere il coraggio di gettare un ponte ideale fra il nord e il sud del mondo, sul quale non passino i carri armati ma i convogli della solidarietà. Dobbiamo avere il coraggio di dare un senso alla vita nostra, dei nostri giovani e del nostro prossimo.

Dobbiamo avere il coraggio di dare dignità all’uomo, a qualunque uomo, attraverso gli strumenti che la politica e l’economia ci offrono. Si tratta di operare le scelte opportune per far in modo che il futuro sia diverso dal presente e dal passato e la persona umana sia veramente al centro della sua vita individuale e comunitaria.

Siamo qui, signor Presidente, nel luogo dove è stata perpetrato una barbaro eccidio animati da sentimenti di pace perché consapevoli che la violenza richiama violenza e ci sentiamo vicini alla sofferenza di chi, da una parte come dall’altra, vive in queste ore momenti di disperazione e di morte.

“Mai più la guerra” è il grido accorato del Santo Padre. Anche noi crediamo in questo imperativo, e vogliamo operare per il bene comune perché non si verifichi più l’esperienza drammatica di cui la Benedicta è stata ed è perenne testimonianza.

VIVA LA PACE

VIVA LA RESISTENZA

VIVA L’ITALIA


Discorso del sindaco di Bosio Stefano Persano

Il Comune di Bosio, un piccolo comune con un territorio molto esteso, ha un grande onore e una grande responsabilità, simboleggiati da questi ruderi.

Questo cascinale ha una storia secolare e importante: prima monastero benedettino, poi centro di una grande proprietà terriera legata alla famiglia Spinola, rappresenta un’epoca in cui il nostro territorio era prospero. Collocato sull’antica via che congiungeva il mare alla pianura, simboleggia anche un rapporto positivo tra i popoli, fatto di commercia, pace, amicizia.

Ma questo cascinale fu anche, in epoca recente, teatro di uno dei più terribili eccidi compiuto congiuntamente da nazisti e fascisti: decine di giovani, spesso disarmati, furono rinchiusi tra queste mura, trascinati a cinque a cinque in quella fossa a cui Lei, signor Presidente, ha appena reso gli onori, e lì furono trucidati: ai loro parenti non fu concesso neppure la consolazione di dar loro una sepoltura, e i loro funerali poterono essere celebrati solo dopo la liberazione; altri duecento ragazzi vennero avviati verso i campi di concentramento dove quasi tutti trovarono la morte.

E infine i nazisti infierirono anche su questo cascinale, lo minarono e lo fecero saltare, riducendolo a un cumulo di ruderi.

Ogni anno in questo luogo, in questi giorni d’aprile, nell’anniversario dell’eccidio, ci ritroviamo in molti, provenienti dalle città del Piemonte e della Liguria, per onorare i caduti e per ribadire il valore della memoria, per affermare la necessità di non dimenticare il passato e per ribadire l’imprescindibile dovere di ricordare gli orrori della guerra. Per dire con forza che non vogliamo mai più nessuna guerra. E ci ritroviamo consapevoli del nostro dovere di trasmettere la memoria di quel passato alle nuove generazioni.

Signor Presidente, autorità, cittadini, io sono convinto che sia nostro dovere ricordare, serbare memoria. Senza la memoria del passato uno Stato non può vivere, e noi, cittadini, corriamo il rischio di non avere radici e valori in cui riconoscerci e a cui ancorare il nostro agire quotidiano.

Ma la memoria, per essere viva, ha anche bisogno di simboli riconoscibili in cui identificarsi. E questi ruderi rappresentano, nel territorio della nostra provincia, il simbolo più importante della storia della resistenza, della deportazione, della lotta condotta da donne e da uomini per la libertà e la giustizia.

Abbiamo quindi il dovere di preservare e valorizzare questo simbolo, queste mura distrutte dai nazisti e dai fascisti come estremo oltraggio al mondo partigiano e al nostro territorio. E abbiamo anche il dovere di preservalo, questo luogo simbolico, contro le violenze e gli atti vandalici che, ancora pochi mesi fa, mani ignote hanno vigliaccamente inferto ai segni civili e religiosi del martirio di tante giovani vite.

Qualche anno orsono, insieme ad altri enti, ad associazioni e istituzioni culturali, alle associazioni partigiane e degli ex deportati, abbiamo dato vita a un comitato che recentemente ha assunto il nome “Memoria della Benedicta”: esso si prefigge il compito di valorizzare questo sito, per affermarne con forza il significato storico e il valore simbolico.

Abbiamo già provveduto a restaurare ciò che resta del cascinale, e a recuperare questo grande cortile: ed è proprio grazie a al lavoro realizzato in questi anni se oggi questa manifestazione si può svolgere in questo scenario carico di significati per la storia della nostra terra e della nostra Repubblica, nata dalla resistenza e dal sacrificio degli italiani deportati nei campi di lavoro e di sterminio.

Ma questo è solo un primo, importante passo, per una corretta valorizzazione del sito della Benedicta e dei tragici avvenimenti che intorno ad essa si compirono.

In questo luogo, ogni anni, arrivano migliaia di studenti, rappresentanti di quelle giovani generazioni alle quali è più importante rivolgere l’esercizio del ricordo e indicare il valore della memoria. Qui trovano un luogo simbolo della memoria, ma spesso, anche in ragione delle avverse condizioni climatiche, la loro visita deve essere breve e affrettata.

La costruzione di un centro di documentazione rispettoso del territorio e della natura, diventa quindi contemporaneamente un obiettivo e una necessità al quale stiamo lavorando: esso è rivolto alle scuole, in primo luogo, e poi a tutti i cittadini, per offrire un adeguato supporto di conoscenza alla visita di questo sito.

Diventa anche un incentivo alla corretta fruizione turistica di queste montagne e di questo Parco naturale, ricco di emergenze storiche e architettoniche, e un possibile volano per la realizzazione di nuove opportunità di lavoro.

Signor Presidente, Autorità, cittadini, quando dicevo che il Comune di Bosio ha un onore e una responsabilità intendevo riferirmi proprio a questi ambiziosi ma realistici progetti per il futuro, capaci di vivificare la memoria e insieme di favorire lo sviluppo economico e turistico del nostro territorio.

Ma per poter realizzare questi obiettivi abbiamo bisogno della collaborazione di tutti: delle istituzioni, perché sostengano, e dei cittadini ai quali chiediamo di guardare con favore ed attenzione e di aiutarci concretamente con idee e proposte.

Oggi per noi è una giornata importante, perché Lei, signor Presidente, con la sua presenza ha reso non solo omaggio al sacrificio di tanti giovani caduti per la democrazia e la libertà, ma anche perché Lei con la sua visita ha dato vigore a una speranza, quella di sviluppare, nel loro nome, quelle iniziative concrete capaci di restituire a questi luoghi, ai valori di cui sono simbolo, alla memoria dei ragazzi che per quei valori hanno combattuto e si sono sacrificati, l’importanza che loro compete nel novero dei luoghi simbolo della storia repubblicana.

Grazie signor Presidente, in queste giornate così gravose per noi tutti, la Sua presenza a questa manifestazione è un monito e una speranza: un monito contro l’intolleranza e la violenza; una speranza per un mondo più giusto, in cui la pace, la giustizia e la democrazia, quei valori per i quali tra queste montagne tanti ragazzi hanno combattuto sino al sacrificio estremo, diventino finalmente patrimonio comune di tutta l’umanità.


Discorso di Raimondo Ricci, presidente dell’Istituto storico della Resistenza in Liguria, in rappresentanza delle associazioni antifasciste

Signor Presidente della Repubblica,

“nostro” Presidente della nostra” repubblica, carissimi famigliari dei nostri caduti, rappresentanti dei Parlamento e delle altre istituzioni compagni della Resistenza, ho l’onore di prendere la parola in questo 59° anniversario degli eccidi della Benedicta per le associazioni dei partigiani, dei deportati, degli internati militari, a nome delle quali porgo un saluto fraterno.

Ogni anno, dalla liberazione ad oggi, in questo appuntamento ci ha accomunato un sentimento vivo di partecipazione e commozione per il ricordo di tante giovani vite sacrificate per dare al nostro paese libertà, dignità e giustizia. Gli anni sono passati ed è importante constatare che alla vigilia del 60° anniversario della lotta di liberazione, nazionale, dopo ben più di mezzo secolo, quel sentimento è divenuto ancora più profondo e in qualche modo più consapevole.

Esso unisce, qui e oggi, il radicamento nell’animo popolare con la continuità della memoria pubblica che trova nella presenza del capo dello stato la sua espressione più alta, in una sintesi che consacra la natura e la qualità più autentica del nostro stato democratico.

Rievochiamo brevemente i fatti drammatici che segnarono in questo sofferto Appennino ligure- piemontese la Pasqua di sangue del 1944. I tedeschi vedevano con preoccupazione la presenza in questa zona che rappresentava per loro una vitale linea di comunicazione con l’entroterra padano, di formazioni armate di Resistenza la cui consistenza e il cui armamento erano stati descritti dagli informatori in termini superiori all’effettiva realtà.

Fu quindi deciso un massiccio rastrellamento in cui vennero impiegate imponenti forze germaniche affiancate da larghi contingenti della GNR, la milizia del fascismo risorto grazie all’ausilio delle baionette tedesche. Così dal 6 al 11 aprile del 1944 venne condotta un’azione militare in grande stile, lo stile distruttivo e spietato che ha contraddistinto tutti i venti mesi dell’occupazione tedesca nel nostro paese.

L’esito del rastrellamento condusse alla resa diversi gruppi di giovani appartenenti a formazioni partigiane ancora in via di organizzazione e alla cattura di numerosi sbandati che semplicemente avevano deciso di sottrarsi ai minacciosi bandi di arruolamento. Il 7 aprile venne compiuta la strage più grande, quella che a fine giornata vide ammassati nell’antico romitorio i cadaveri di un centinaio di giovani e alla quale seguirono gli eccidi di Voltaggio, di Villa Bagnara, nel comune di Masone, di Passo Mezzano.

Il totale fu di 145 uccisi, cui vanno aggiunti i 19 catturati e ristretti nelle carceri di Marassi, in Genova, che vennero successivamente fucilati il 19 maggio del 1944 al passo del Turchino e gli oltre 200 prigionieri deportati nei campi di eliminazione nazisti, dai quali solo una piccola minoranza fece ritorno.

Questo grande massacro avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni dei tedeschi e dei fascisti, un esempio destinato a scoraggiare ogni velleità di resistenza. In effetti esso fu una grave sconfitta per le forze partigiane sorprese in una fase di assestamento e non ancora in grado di affrontare l’estrema durezza della repressione nazifascista.

Ma nello stesso tempo rappresentò un’esperienza che nella sua drammaticità valse a temprare la Resistenza ligure-piemontese, fino a farle assumere nei mesi successivi quella maturità e quella capacità operativa che in seguito la contraddistinsero e le consentirono di svolgere un ruolo fondamentale nella liberazione d’Italia, in particolare nell’insurrezione del nord, da Milano a Torino, a Genova.

Va qui ricordato che gli eccidi della Benedicta sono stati ritenuti crimini di guerra. Per essi è stato condannato con sentenza del 15 o 16 novembre 1999 il tenente colonnello delle SS Friedrich Siegfrid Engel, comandante della polizia germanica a Genova, in tale sua veste responsabile della sorte dei prigionieri catturati nel corso del rastrellamento al quale personalmente egli partecipò, al punto da ricevere una medaglia al valore, la croce di guerra di seconda classe con spade.

Lo stesso Engel fu poi condannato in Germania, dalla corte penale di Amburgo, per il successivo eccidio del passo del Turchino consumato il 19 maggio del ’44. La terribile vicenda della Benedicta documenta il calvario dei sacrifici di cui il popolo italiano è stato capace per conquistare pace, libertà e giustizia. La Resistenza italiana ha avuto caratteri del tutto peculiari che la distinguono da quella di altri paesi dell’ Europa brutalmente assoggettati al dominio nazista e fascista.

Essa non è stata soltanto, come in Polonia, in Francia, in Norvegia, in Jugoslavia, la continuazione di una guerra provvisoriamente perduta, ma ha avuto un carattere più complesso e liberatorio, potrebbe dirsi più “politico”: essa si è svolta in un paese, il nostro, ove era riuscito a insediarsi il totalitarismo fascista alleato con la Germania nazista e al fianco di essa per buona parte dei quasi sei anni di durata della seconda guerra mondiale.

La nostra Resistenza ha avuto inizio dopo il trauma di quell’8 settembre ’43 che non è stato, come da qualche parte si sostiene, la morte della patria ma un drammatico e difficile “ritorno alla ragione” a fianco degli alleati.

Ad essa hanno partecipato tutte le forze vive della società italiana, uomini e donne che l’hanno sostenuta anche quando non impugnato le armi, dalla gioventù studiosa delle università agli operai delle fabbriche, dagli abitanti delle campagne, alle forze armate che a Cefalonia, Porta San Paolo, in cento altri luoghi dentro e fuori il territorio nazionale hanno versato un alto tributo di sangue per il riscatto dell’Italia.

Per queste sue caratteristiche la nostra Resistenza è stata non soltanto lotta per la liberazione del territorio nazionale ma insieme lotta per la ricostruzione democratica dell’Italia contro il fascismo, vale a dire contro il periodo più negativo ed oscuro della nostra storia contemporanea. È in questa realtà che si colloca il rapporto tra la Resistenza italiana e i suoi preziosi risultati: il mutamento della forma istituzionale dello stato da monarchia a repubblica e la Costituzione.

Pensando a questa, al suo moderno e ammirevole tessuto, va posto in luce che esso è frutto dell’incontro di filoni politici e culturali che nel corso della Resistenza, attraverso i comitati di liberazione nazionale, hanno realizzato la propria unità: il filone liberale, quello cattolico, quello socialista e marxista.

Ma per comprendere fino in fondo l’essenza della costituzione non è tanto a questo aspetto che occorre riferirsi, quanto alla tensione, alla passione, alle speranze, all’esperienza collettiva che furono presenti nel movimento e nella lotta antifascista sullo sfondo della grande tragedia epocale della seconda guerra mondiale. Tutto ciò si è tradotto nel senso di responsabilità e nell’impegno comune dei costituenti.

Occorre tenere presente il quadro di un’Europa invaso e soggiogata al dominio di una “razza” che intendeva imporsi su tutte le altre, di interi popoli sterminati come il popolo ebraico, di un immenso territorio percorso dai vagoni piombati della deportazione politica e razziale per comprendere pienamente il significato dei principi scritti nella Costituzione relativi ai diritti inalienabili della persona, ai doveri di solidarietà economica e sociale, alla uguaglianza di tutti gli esseri umani indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla religione, fino al ripudio della guerra come strumento di offesa, contro la libertà di altri popoli a come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali.

E ancor più questa riflessione è in grado di valutare tutto il significato del consenso che la Costituzione esprime alle limitazioni della sovranità nazionale in quanto necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni.

Noi sappiamo e constatiamo ogni giorno, signor Presidente, che di questi principi Ella è attento custode perché nella loro osservanza sta il futuro stesso non solo della nostra comunità nazionale ma dell’umanità intera. Più che mai in questo momento, nel quale è in corso una guerra che viola quei principi, il richiamo ad essi si rende necessario.

Il sacrificio dei martiri della Benedicta costituisce una tappa dolorosa ma fondamentale, insieme a tanti altri sacrifici del nostro popolo, del sofferto e difficile percorso che ci ha dato la libertà. A questi martiri l’Italia democratica e moderna deve una imperitura riconoscenza.

La sua presenza qui signor Presidente, insieme alla sua gentile consorte, signora Franca, costituisce il suggello più alto dei valori che ispirano questa giornata di memoria. La nostra identità nazionale ha le proprio radici nel Risorgimento che ha costruito l’unità della nostra patria e nella Resistenza che ne ha fondato il sistema democratico della Sua costante riaffermazione di questi ideali. Le siamo profondamente grati.