La «Zona d’operazione Litorale Adriatico» e la Risiera di San Sabba

di Mauro Coslovich

(tratto da “I Viaggi di Erodoto”, numero 34 gennaio-aprile 1998, “Il confine orientale. Una storia rimossa”, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori)

Il ricordo, non privo di suggestioni emotive, della buona amministrazione austriaca è ancor’oggi largamente diffuso a Trieste, la «perla» dell’ex Impero austro-ungarico. La benevola immagine lasciata dall’Austria imperiale fu sapientemente usata dai tedeschi durante l’occupazione della Venezia Giulia tra la fine del 1943 e l’aprile del 1945. La pubblicazione di un giornale in lingua tedesca («Deutsche Adria Zeitung»), i programmi radiofonici di Radio Litorale Adriatico (soprattutto programmi come Trieste saluta Vienna e Vienna saluta Trieste), l’intensa attività dell’Associazione italo-tedesca e le occasioni mondane che in qualche modo continuarono a vivificare la città pur sotto occupazione (basta sfogliare la stampa locale del periodo per rendersene conto) sono in gran parte incentrate, secondo un sapiente uso dei mezzi di persuasione, attorno al legame di Trieste con la Mitteleuropa e il suo «glorioso» passato austriaco. Ed è sempre in questa prospettiva che si pensa di denominare le province orientali sotto occupazione Adriatisches Küstenland, riprendendo il termine Küstenland dal vecchio titolo austriaco (Millo 1989).
Rispetto al territorio austro-ungarico l’estensione dell’Adriatisches Küstenland in realtà era ben più ampia: assorbiva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Lubiana, Pola e Fiume, ed era diretta da un Commissario supremo (il Gauleiter Friederich Rainer), coadiuvato da consiglieri tedeschi (Deutscher Berater), che di fatto deteneva tutti i poteri civili e militari dei territorio. Ora, se la «Zona d’operazioni» costituisse per i tedeschi una souzione momentanea resa necessaria dal delicato punto di raccordo bellico che la regione ricopriva tra mondo germanico e fronte balcanico, oppure fosse da ritenersi una soluzione definitiva nel quadro del Nuovo Ordine tedesco disegnato dal Terzo Reich, dal punto di vista storiografico è argomento ancora controverso. La seconda ipotesi è stata per lungo tempo considerata come la più solida e credibile (Collotti 1974). L’ambiguità e le reticenze che i tedeschi mantennero sul destino di questo territorio è da attribuirsi all’alleanza, subalterna ma preziosa, con il neonato fascismo della Repubblica sociale italiana che sulle «terre redente fondava ancora tanta retorica nazionalistica. Di fatto nel Litorale Adriatico la presenza dei fascisti repubblicani fu messa in sordina e nessun provvedimento emanato da Salò ebbe validità nella Zona d’operazioni. Rispetto a quest’ipotesi, ultimamente si è tuttavia andata profilando un’interpretazione più possibilista secondo la quale l’assunzione del territorio, da parte tedesca, non poteva ritenersi comunque definitiva. Il fatto che i rapporti e i collegamenti tra Adriatisches Küstenland e il Reich fossero mantenuti dal Ministero degli esteri tedesco avvalorerebbe quest’ultima tesi (Stuhlpfarrer 1979).
Che fosse o no da ritenersi provincia più o meno acquisita al Reich Millenario, il dato più inquietante della presenza nazista nel Litorale Adriatico è rappresentato senz’altro dall’imponente apparato coercitivo. La preoccupazione di mantenere sotto stretto controllo il territorio, soprattutto le vie di attraversamento, bonificandolo dalla presenza partigiana soprattutto jugoslava sempre più massiccia e incalzante, indurrà, semmai ce ne fosse stato bisogno, i tedeschi ad adottare una politica di feroce repressione. Nella lotta antipartigiana venne applicato il Bandenkampf in der Operationzone Adriatisches Küstenland una variante, arricchita di riferimenti locali, della direttiva emanata da Hitler il 18 agosto 1942 per la lotta contro le bande nel territori orientali dopo l’invasione dell’Urss: praticamente un prontuario, diffuso tra le truppe tedesche, sulle tecniche d’applicazione della guerra di «sterminio». L’Istria venne infatti messa a ferro e fuoco; si calcola che tra l’ottobre e il novembre 1943 vennero eliminati 2000 partigiani, uccise 2500 persone inermi, arrestate 1244, mentre ne vennero avviate ai campi di sterminio 422 (Bressan, Giuricin 1964).
I rastrellamenti, le distruzioni dei paesi, le rappresaglie sulla popolazione civile non sono che il primo livello del sistema del terrore messo in piedi dal nazisti. Il secondo livello èquello rappresentato dall’apparato di polizia e dai luoghi di detenzione e tortura. Il comandante della polizia del Litorale è il generale della SS Odilo Lotario Globocnik, che aveva diretto a Lublino, in Polonia, l’Aktion Reinhard, vale a dire l’operazione di sterminio che procurò la morte di oltre due milioni di ebrei a Sobibor, Belzec e Treblinka. Lo affianca un gruppo di collaboratori che si è distinto nella «soluzione finale»: Otto Stadie, Kurt Franz, Christian Wirth, Joseph Oberhauser, Dietrich Allers, Franz Stangl non sono che alcuni dei nomi più noti di questi criminali di guerra. Ricordiamo che Allers e Oberhauser furono processati a Trieste nel 1976 (unici all’epoca ancora viventi) per il ruolo che ebbero durante l’occupazione tedesca come comandanti della Risiera (Scalpelli 1995).
I nomi di questi criminali vanno ricondotti a quello del Polizeihaftlager della Risiera di San Sabba costituito nell’ottobre del ’43. Il lager, posto a ridosso della città, ha assolto a molteplici funzioni: campo di smistamento per gli ebrei verso Auschwitz (ne transitarono oltre 1200); campo di raccolta dei beni razziati alla comunità ebraica; luogo di detenzione e tortura del partigianato italiano e jugoslavo; campo di eliminazione per i resistenti. Dal giugno del ’44 venne messo in funzione un forno crematorio e si procedette all’esecuzione delle vittime per mezzo dello sgozzamento, dell’abbattimento con la mazza ferrata e della fucilazione, mentre, nelle ultime fasi, si ritiene sia stato utilizzato il sistema della gassazione attraverso l’utilizzo di camion ermetici. Le vittime della Risiera si aggirano attorno alla cifra di 3000-4000 unità (Matta 1997). Accanto alla Risiera, la specificità della quale risiede nelle operazioni di sterminio condotte al suo interno con i metodi adottati Einsatzkommando proveniente dalla Polonia, esiste una costellazione di altri luoghi di detenzione e tortura. Oltre ai vari uffici distaccati dall’EKR Einsatzkommando Reinhard) in Istria e in Friuli, a Trieste, la «capitale» del Litorale, vanno almeno ricordati il bunker del comando delle SS in piazza Oberdan, la «vílla triste» di via S. Michele e quella, ancora più terribile, di via Bellosguardo diretta dal vicecommissario dell’Ispettorato speciale Gaetano Collotti. Nell’aprile del 1943 Mussolini istituì nella Venezia Giulia l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza con a capo l’Ispettore generale Giuseppe Gueli con funzioni di repressione antipartigiana e di controllo dell’attività «sovversiva» nelle fabbriche. Con l’arrivo dei tedeschi l’Ispettorato si mise subito al loro servizio rendendosi protagonista di una spietata repressione contro gli antifascisti che spesso superò, per crudeltà ed efferatezze, le stesse SS.
La pagina del «collaborazionismo» locale è senz’altro una delle più spinose e delicate. Non solo per la crudele partecipazione di questi reparti di polizia italiani (ai quali, non dimentichiamolo, si affiancò il collaborazionismo sloveno), ma anche per il ruolo che finirono per avere il podestà Cesare Pagnini e il prefetto Bruno Coceani, graditi ai tedeschi ed essi stessi espressione dell’ambigua simpatia filotedesca che nutriva una parte non trascurabile delle classi dirigenti locali intimorite dal pericolo partigiano slavo-comunista che incombeva sulla regione. La costituzione di una «guardia civica» con compiti di controllo e sorveglianza dell’ordine pubblico quale emanazione dei poteri civili locali fu di fatto uno strumento in mano tedesca per espletare, al bisogno, funzioni di supporto alla repressione, mentre si rivelò prezioso mezzo di controllo e contenimento dei giovani altrimenti reclutabili dal partigiani. Ciononostante un certo numero di essi aderì ugualmente alla Resistenza, per quanto non fosse facile, soprattutto per chi non militasse già nelle file comuniste, aderire a un movimento di liberazione egemonizzato da sloveni e croati, refrattari a riconoscere l’antifascismo italiano, ritenuto, in molti casi, un tardivo tentativo di recupero non sufficiente a riparare i lunghi anni di dominio e discriminazione fascista (Fogar 1997). Non si può inoltre dimenticare che una parte cospicua di italiani fu assoggettata al lavoro forzato nella struttura della Todt, in condizioni di semiprigionia, subendo un trattamento spesso duro e sprezzante. La strada fra Trieste e Fiume, per esempio, fu punteggiata da campi di lavoro che videro impegnati tanti italiani nella costruzione di fortificazioni e trinceramenti (Spazzali 1995).
Il quadro d’insieme che l’occupazione tedesca della Venezia Giulia ci offre è quindi frastagliato e complesso. L’apparato repressivo si articola e si diversifica, per durezza e per scopi e finalità diverse: dalla pura eliminazione, alla rapina, al saccheggio, all’utilizzo delle forze locali in funzione di supporto e aiuto, sia sotto il profilo militare che di forza lavoro. Resta tuttavia da considerare un ultimo significativo elemento che getta ulteriore luce sulla locale presenza tedesca: l’impatto che ebbe nella zona la deportazione verso i campi di concentramento nazisti. Le provincie orientali (escluso quindi il territorio di Lubiana), secondo recenti attendibili stime, ricoprono da sole quasi un quarto (8220 unità contro 40 000 circa) della deportazíone a livello nazionale, mentre dal Litorale Adriatico 74 convogli sono partiti per i lager nazisti a fronte dei 49 organizzati nel resto d’Italia (Coslovich 1994). Si tratta di cifre e quantità che esprimono con una certa chiarezza l’impatto pesante e grave dell’occupazione tedesca, ma anche la volontà di resistergli e di riscattarsi. In questo scenario drammatico, nel quale il gioco delle contrapposizioni politiche s intrecciava a quello etnico-nazionale, si aprirà il difficile e lungo dopoguerra triestino.

Bibliografia

A. Berti, Viaggio nel pianeta nazista, Franco Angeli, Milano 1989.

S. Bon Gherardi, La persecuzione antiebraica a Trieste (1938-1945), Dei Bianco, Udine 1972.
A. Bressan, L. Giuricin, Fratelli nel sangue, Rijeka 1964.
E. Collotti, Il Litorale Adriatico nel Nuovo Ordine Europeo 1943-1945, Vangelista, Milano 1974.
M. Coslovich, I percorsi della sopravvivenza. Storia e memoria della deportazione dall’Adriatisches Kústenland, Mursia, Milano 1994.
M. Cosiovich, Racconti dal Lager. Testimonianze dei sopravvissuti ai campi di concentramento tedeschi, Mursiascuola, Milano 1997.
G. Fogar, Trieste in guerra. Gli anni 1943­1945, Quaderni di «Qualestoria», Trieste 1997.
T. Matta, La Risiera di San Sabba: realtà e memoria di un Lager nazista a Trieste, in A.L. Carlotti (a c. di), Italia 1939-1945. Storia e memoria, Vita e pensiero, Milano 1996.
T. Matta (a c. di), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Electa, Milano 1996.
S. Millo, I peggiori anni della nostra vita. Trieste in guerra 1943-1945, Edizioni «Svevo», Trieste 1989.
A. Scalpelli (a c. di), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, 2 voli., Aned-Lint, Trieste 1996 (la ed., A. Mondadori, Milano 1986).
R. Spazzali, Sotto la Todt. Affari, servizio obbligatorio dei lavoro, deportazioni nella Zona d’Operazioni “Litorale Adriatico”, Editrice Goriziana, Gorizia 1995.
K. Stuhlpfarrer, Le zone d’operazioni Prealpi e Litorale Adriatico, Adamo, Gorizia 1979.