Insegnare Auschwitz

di Jean Michel Chaumont 

(Fondazione AuschwitzBruxelles. Comunicazione presentata al convegno “Shoah e deportazione nella didattica della storia”, Torino, 22-23 aprile 1993)

Una camera a gas a Mauthausen

Il forno crematorio di Maidanek

Siamo in un certo numero ad essere convinti che la Shoah o Auschwitz non si possono studiare -né, a fortiori, insegnare- come il resto.

Questa convinzione non comporta tuttavia l’unanimità: alcuni, per fare un esempio che a suo tempo fece non poco rumore dall’altra parte delle Alpi, preferirebbero che la Shoah fosse studiata ed insegnata come un dettaglio della Seconda Guerra mondiale. La mia trattazione non si rivolge a loro ma, bisogna esserne coscienti, essi esistono, più numerosi di quanto non vorremmo ammettere.

Anche tra di noi, il consenso è soltanto apparente. In effetti, la nostra convinzione comune che Auschwitz non si debba insegnare come il resto poggia su fondamenti differenti e a volte incompatibili.

L’argomento più spesso invocato è quello dell’assoluta singolarità storica della Shoah. Ricostruito per sommi capi, il ragionamento è il seguente: se questa storia innominabile deve essere studiata e trasmessa -e l’insegnamento è uno dei canali della trasmissione- in modo diverso, è perché essa è nel suo contenuto assolutamente differente dal resto e “assolutamente differente” può qui voler dire solo una cosa: che essa è totalmente incomparabile, cioè che essa non intrattiene alcun rapporto di similitudine con qualsiasi altra cosa nella storia. Essa è a tal punto incomparabile che si potrà addirittura dire che essa non è, né può diventare, parte della storia.
Un corollario di questa posizione è che, siccome la Shoah non ha niente a che vedere con nient’altro (conseguenza della sua incomparabilità), essa è inesplicabile ed incomprensibile. Nella misura in cui, come è pure frequente, si considera in più che la Shoah è l’unica singolarità storica assoluta, non ci si stupirà di sentir dire che la Shoah è il solo avvenimento che non può essere né spiegato, né compreso. Essa avrebbe, per così dire, il triste privilegio della non intelligibilità.

Da parte mia temo che l’insistenza sull’assoluta singolarità storica della Shoah che caratterizza oggi lo stato della memoria di Auschwitz la faccia finire in un’impasse altrettanto funesta di quella -a ben guardare diametralmente opposta- dove l’aveva cacciata ieri l’antifascismo staliniano ed il suo universalismo ideologicamente pervertito. Io voglio di conseguenza tentare in un primo tempo di esplicitare i miei timori che sono insieme di ordine cognitivo e morale. Per questo, illustrerò il mio proposito per mezzo di alcune riflessioni sui conflitti di periodizzazione apparsi nel dibattito sulla storicizzazione del regime nazional-socialista. Proporrò in seguito un argomento alternativo basato, è vero, su di un’altra intenzione -per giustifìcare la proposizione secondo la quale Auschwitz non si dovrebbe studiare come il resto.
Tutto ciò sì inscrive in un tentativo per tracciare a grandi tratti i principali assi di una configurazione della memoria di Auschwitz che, respingendo insieme le sue due configurazioni, quella passata (cioé l’universalismo mutilato dell’antifascismo staliniano) e quella presente (cioé la singolarizzazione a oltranza delle memorie comunitarie) , cerchi un cammino più praticabile per impiantarla solidamente nella coscienza storica dei nostri contemporanei.

Da un punto di vista strettamente cognitivo -epistemologico all’occorrenza- comincerei col far notare che una singolarità storica assoluta -vale a dire una singolarità senza nessun parametro comune con alcun altro fenomeno passato, presente o futuro-, ebbene non esiste, -né qui né altrove- perché rappresenta una contraddizione in objecto. Siccome mi manca il tempo per dimostrarlo, mi servirò delle parole di uno storico non sospettabile di parzialità in materia: Pierre Nora che scriveva, in tutt’altro contesto ma in modo definitivo: “La memoria è un assoluto e la storia non conosce che il relativo.” Che cosa significa per il nostro discorso?

Semplicemente che tutte le singolarità che la scienza storica può stabilire sono necessariamente relative a un punto di vista, a qualche cosa in rapporto alla quale la singolarità è stabilita. Non c’è dunque una singolarità storica assoluta, ci sono delle singolarità storiche relative: così, per non citare che alcuni esempi, a riguardo della Shoah, l’utilizzazione di complessi quasi industriali che combinavano camere a gas e crematori è una singolarità storica in rapporto alle modalità tecniche del dare la morte in altri genocidi o ancora, quando si considera con Jackel l’avvenimento dal punto di vista dei carnefici, c’è una singolarità nel fatto che “mai prima uno Stato aveva deciso ed annunciato sotto l’autorità del suo responsabile supremo che un certo gruppo umano doveva essere sterminato, per quanto possibile nella sua totalità, inclusi vecchi, donne, bambini e lattanti, decisione che questo Stato ha in seguito applicato con tutti i mezzi a sua disposizione”. Si potrebbero moltiplicare all’infinito -ahimé- questi esempi di singolarità storica la cui somma stessa fa della Shoah un avvenimento contemporaneamente senza precedenti (ma non necessariamente senza futuro come si è sovente rilevato) e singolare da numerosi punti di vista. Ma il fatto che essa sia stata, in quanto tale, senza precedenti non implica affatto che non sia paragonabile – paragonabile: vale a dire simile per certi punti e differente per certi altri- e anche tra coloro che la pretendono imparagonabile, non vi è alcuno che non possa in effetti fare a meno di stabilire paragoni, non foss’altro che, come Jackel, per stabilire più fermamente una singolarità. Perché se l’avvenimento è davvero senza parametro comune con null’altro sotto certi punti di vista, lo è sotto altri dove al contrario gli accostamenti si impongono.
Questi ultimi non sono necessariamente limitati a considerazioni molto generali e/o banali; tanto con “fenomeni” lontani e senza legami di causalità -Barry, il cane lupo che attaccava gli sventurati destinati al gas a Sobibor richiama furiosamente i cani che accompagnavano i Conquistadores in America del Sud cinque secoli fa- quanto con dei “fenomeni” vicini e pertinenti causalmente -la gasazione dei malati di mente che fornì la maggior parte dei suoi esperti ai campi dì sterminio di Sobibor, Belzec e Treblinka-, c’è una quantità di punti di vista sotto i quali Auschwitz è paragonabile; talvolta perfino, quando noi per esempio ci confrontiamo a delle manifestazioni di quello che Hanna Arendt chiamava la “banalità del male”, Auschwitz è talvolta stranamente vicino a noi, paragonabile a ciò che noi viviamo hic et nunc.

Se la storia non conosce che delle singolarità relative, la memoria al contrario conosce perfettamente delle singolarità assolute e mi basterà credo un esempio per convincervi: niente è più “normale” che vedere i propri genitori morìre e da un punto di vista scientifico o storico, non v’è in ciò alcunché di singolare: la morte di una madre è l’avvenimento più banale che vi sia; ma per chi perde la propria madre, la cosa non è affatto così, l’avvenimento è assolutamente singolare, vale a dire qualitativamente unico e non comparabile: ogni uomo ha un bel sapere a partire da una certa età che la morte di una madre è nell’ordine delle cose, qui è di sua madre che si tratta ed è per l’interessato in ogni caso un avvenimento senza alcun comune parametro con niente di conosciuto altrove. Così lo stesso fenomeno può rappresentare due cose differenti a seconda del rapporto che si intrattiene con esso: per l’impiegato dello stato civile incaricato di registrare il decesso, non si tratta che di una riga in più nel registro delle morti, per il congiunto nel lutto è un avvenimento che va più o meno considerevolmente a rovesciare la sua esistenza. Vi domando di mettere per ora da parte questo ragionamento, ci ritorneremo più tardi.

Se le singolarità storiche assolute non esistono, è evidentemente difficile dimostrarle… Ma giacché non si vuole aver l’aria di battere in ritirata, l’affermazione della loro esistenza diventa artificiale e dogmatica. Diviene un articolo di fede piuttosto che un argomento. Perché i dogmi non si discutono, si impongono mediante argomenti basati sull’autorità che solo il rispetto che ispira ancora il ricordo delle sofferenze patite permette di far passare. All’occorrenza, la procedura dogmatica si attesta soprattutto sul rifiuto di ammettere alcuna altraprospattiva al di fuori di quelle che fanno emergere al meglio le singolarità.

Al posto di altre prospettive, si svilupperà una strategia del sospetto basata essenzialmente, lo vedremo, su dei processi alle intenzioni. Nella misura in cui, in fin dei conti, questo significa non tollerare che alcuni punti di vista ad esclusione degli altri, l’operazione incatena letteralmente la ricerca.

Di conseguenza inoltre, essa mantiene artificialmente la non intelligibilità dell’avvenimento: se solo le prospettive nelle quali esso appare come incomparabile hanno diritto di cittadinanza, non c’è il rischio che lo si possa comprendere: se esso ci è presentato esclusivamente come privo di ogni legame con ogni altra cosa, è giocoforza concludere che è caduto dal cielo piuttosto che essere il prodotto di una società e della sua storia. E se cade dal cielo, meglio abbandonarne lo studio ai teologi che hanno con le cose del cielo una più lunga frequentazione che gli storici.

Ma alla fine, il risultato di questa strategia non può che essere disastroso: gli allievi, la gente in generale, non sono stupidi. Se è a colpi di dogmi che gli viene rifilata la storia, si può essere sicuri che reagiranno violentemente a quella che allora avranno percepita come una storia “ufficiale”. Svilupperanno ben presto l’impressione che si nascondono loro delle cose, ed è evidentemente questo genere di impressione che i falsificatori sapranno sfruttare. Senza arrivare a dire che l’insistenza esclusiva su una pseudo-singolarità storica assoluta fa il gioco del negazionismo, penso tuttavia che essa sia molto dannosa perché produce presso i destinatari (i quali vi sono già -sia per antisemitismo atavico, sia per la reticenza di assumere la propria storia, sia per entrambi i motivi- fin troppo inclini) più diffidenza che compassione a riguardo delle vittime. E, ci ritornerò, se è col provocare diffidenza verso le vittime che si conclude una lezione su Auschwitz, meglio rinunciarci prima.

Tanto più che non è soltanto da un punto di vista cognitivo ma anche etico che l’insistenza su una singolarità assoluta è dannoso. In effetti, come non sentire la svalutazione che si riversa, che lo si voglia o no, sul “resto” quando si afferma perentoriamente che, essendo la Shoah differente da tutto il resto, essa deve essere studiata ed insegnata differentemente? Non c’è sintomo più indicativo di questa situazione sgradevole del numero incalcolabile di volte che gli autori si sentono obbligati a dire prima o poi nel corso delle loro argomentazioni che non hanno assolutamente intenzione di minimizzare la sofferenza degli altri. In psicanalisi, questo si chiama denegazione e mi sembra chiaro che se, loro malgrado, questi autori non banalizzassero le altre “tragedie” storiche, non proverebbero nemmeno il bisogno di difendersi. Io credo che contrapporre in tal modo le vittime della storia le une alle altre in un macabro gioco al rialzo significhi tradirle tutte e dirò ora come noi possiamo a mio avviso rendere un miglior servizio alle vittime di Auschwitz facendole “servire” esse stesse a denunciare le altre vittime, passate e presenti, dell’oppressione.

[…]

Ma quando si dice che Auschwitz non va insegnato come il resto, si può anche voler manifestare il desiderio che esso sia insegnato in modo differente. Qui l’accento non è posto sul contenuto, ma sulla folla, sulla modalità dell’insegnamento; non più sull’”oggetto” stesso, ma sul rapporto con “oggetto”.

Per fornire l’intuizione che corrisponde a questa comprensione alternativa, analizziamo ciò che ci shocca all’idea che Auschwitz possa essere insegnato come il resto.

La prima cosa da mettere in rilievo è che proprio di “shock” si deve parlare: essere “shoccati”, è un sentimento di natura morale; se si trattasse di un sentimento puramente cognitivo, si parlerebbe di essere stupiti o sorpresi. Si può essere sorpresi, anche stupefatti da un fenomeno senza pur tuttavia esserne per nulla shoccati. Ma all’occorrenza, noi saremo shoccati. Per qual motivo, se non perché noi abbiamo di fronte allo studio e all’insegnamento di certi “oggetti” della attese che sono più che semplicemente cognitive? Quali sono queste attese?

Se la lezione su Auschwitz, per quanto esatta e precisa, dovesse lasciare i suoi destinatari nello stesso stato in cui si trovavano prima di sapere, io preferirei personalmente che la lezione non fosse stata affatto tenuta, perché se essa non ha alcun impatto, non si tratta di una operazione inutile, ma, dal punto di vista della formazione morale e civica del destinatario, è una perdita. In effetti, se si è capaci di integrare Auschwitz come una semplice informazione, ciò ha un significato morale: è un indurimento, un indurimento che è pienamente paragonabile all’indurimento che Himmler voleva per i suoi SS quando diceva loro a Posen il 4 ottobre 1943. La maggior parte di voi sa che cosa significa avere 100, 500, 1000 cadaveri davanti a sé. Avere sopportato ciò e nondimeno -a parte qualche debolezza umana eccezionale- essere rimasti corretti, questo ci ha induriti”.

Non voler intendere Auschwitz come lo potevano vedere gli SS significa che, grazie ad Auschwitz, noi vogliamo provocare presso i destinatari una crisi paragonabile a quella che ci ha scossi quando noi abbiamo realizzato pienamente ciò che ieri è accaduto là. Prima di domandarci se sia stato unico o no, con o senza precedenti nella storia dell’umanità, noi abbiamo avuto uno shock che non ci ha lasciati indenni. Alla maniera delle vittime (e più degli SS questa volta) noi abbiamo ricevuto questa informazione come inimmaginabile, più precisamente, come impossibile fattualmente e inaccettabile eticamente. Abbiamo ben dovuto in seguito rassegnarci sul piano empirico ammettere che essa è stata possibile, dal momento che aveva avuto luogo, ma senza che purtuttavia cessasse di sembrarci intollerabile sul piano etico. Da allora, noi viviamo in una tensione irriducibile tra il riconoscimento fattuale di ciò che è stato e la protesta etica che ciò non avrebbe mai dovuto essere possibile. Come ogni stato di crisi grave, questo stato di tensione provoca in un primo momento uno sconvolgimento globale: essa paralizza la riflessione, rovescia tutte le certezze e tutti i valori, obbliga ad una revisione completa di tutte le norme del pensiero e dell’azione. Come in effetti mantenere la propria fiducia in un mondo nel quale un Auschwitz è stato possibile?

Si vede bene che non c’è spiegazione, per quanto sofisticata, che possa risolvere il problema perché il tratto caratteristico di questa crisi di fiducia, è che da una parte essa provoca una ricerca infinita di spiegazione e di comprensione ma che, d’altra parte, noi sappiamo per così dire a priori che niente la potrà quietare. Auschwitz deve in un certo senso restare un enigma perché noi inorridiremmo all’idea che una qualche spiegazione potesse -come, non lo dimentichiamo, è vocazione di ogni spiegazione che si rispetti-, farci ammettere che, date tali e talaltre circostanze, Auschwitz era prevedibile e normale. In altri termini, noi possiamo e dobbiamo trasmettere (anche nell’insegnamento Auschwitz come un fenomeno inesplicabile ed incomprensibile ma essere capaci nello stesso tempo di declinare l’insieme delle spiegazioni e delle interpretazioni che ne sono state proposte. Alcune mi potrebbero apparire fantasiose, altre più convincenti ma anche queste ultime non bastano a spingermi ad adattarmi alla realtà di Auschwìtz come io accetto molti altri fenomeni quando mi viene fornito un inizio di spiegazione.

Questo significa che Auschwitz sarà la sola ed unica cosa inesplicabile nella storia? E’ questa, l’ho detto finora, una affermazione che si sente frequantemente. Qui a Torino, non posso far a meno di rilevare che Primo Levi stesso la sosteneva. Nell’appendice redatta nel 1976 per l’edizione scolastica di Se questo è un uomo per, diceva, rispondere alle domande che mi vengono continuamente poste dagli studenti”, si ferma specificamente al problema “come si spiega l’odio fanatico dei nazisti contro gli Ebrei?”: dopo aver tracciato un lungo panorama storico della genesi e dello sviluppo dell’antisemitismo nel mondo e specificamente in Germania, egli confessa: “Tuttavia, devo ammettere che queste spiegazioni, che sono quelle comunemente accettate, non mi soddisfano: sono diminutive, non commisurate, non proporzionali ai fatti da spiegare”. Fino a qui, sono del tutto d’accordo con lui; esprime perfettamente ciò che siamo in molti, credo, a sentire nello stesso modo ma allorché riflette ed analizza questa insoddisfazione, credo che imbocchi una strada sbagliata. Scrive: “Forse quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: “comprendere” un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann, e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l’esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha niente a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto dì sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la <comprendiamo>”.

Come primo indice dell’aporia alla quale ci si condanna facendo di Auschwítz l’unico avvenimento incomprensibile della storia, si noterà l’incoerenza di Primo Levi che, nella medesima pagina, afferma simultaneamente che non si può comprendere il carnefice nazista perché <nessun uomo normale potrà mai identificarsi con lui> e che bisogna sempre ricordare che gli Eichmann e Compagnia “non erano dei carnefici per nascita, non erano -salvo poche eccezioni- dei mostri, ma degli uomini qualunque”. Si vede allora la contraddizione: se erano uomini comuni perché sarebbe escluso per noi identificarci con loro e comprenderli? In altre parole, per fare di Auschwitz l’unico avvenimento incomprensibile, si è (tra le altre cose) obbligati a popolarlo di esseri incomprensibili: bestie, demoni o extraterrestri … ma allora noi non possiamo poi senza contraddizione “normalizzarli” con lo scopo di farne eroi negativi, spaventapasseri esemplari per l’edificazione della gioventù.

Inoltre e soprattutto, è così sicuro che noi comprendiamo la guerra? Abbiamo perfettamente integrato la sua possibilità come modo per risolvere differenze irriducibili mediante la discussione, questo è incontestabile. Ma l’abbiamo mai compresa? Io sono persuaso del contrario: noi non abbiamo che dei simulacri di spiegazione ed essi non ci soddisfano che nella misura in cui, contrariamente a ciò che si produce con Auschwitz, di fronte alla guerra, la nostra protesta etica -è generalmente (sempre) imbavagliata. Anche se noi siamo contrari -e chi non lo è?- noi l’abbiamo ammesso esattamente nel modo in cui la descrive Primo Levi: come una realtà sgradevole e condannabile ma comprensibile. Per quanto mi riguarda, è la mia insoddisfazione di fronte alle spiegazioni del genocidio degli Ebrei che mi ha fatto scoprire (e ciò si può mostrare) che a ben guardare noi non abbiamo in realtà spiegazioni migliori della guerra o di altri genocidi ma che, in tutti questi altri casi, noi siamo disposti ad accontentarcene.

Questa scoperta mi ha veramente aperto gli occhi: mi sono reso conto che ci si nascondeva delle cose sulla storia… Non voglio evidentemente lasciar intendere che noi saremmo vittime di un qualche complotto ma semplicemente che la relativizzazione _e la banalìzzazione che noi tutti temiamo per Auschwitz si è già prodotta a riguardo delle guerre e delle altre carneficine umane da un bel pezzo.

Si delineano allora tre possibilità:

a) la peggiore di tutte è che lo stesso fenomeno, di banalizzazione per assuefazione si produca e che la possibilità di un genocidio etnocidiario 36 sia ormai inserita ed integrata nella gamma delle “soluzioni -criminali, certo, ma come umane- prevedibili in certi tipi di crisi politiche e sociali. In questo caso, la tensione (tra l’empirico e l’etico) che abbiamo analizzato finora sparirebbe e questa sarebbe non solo la più insidiosa delle banalizzazioni, ma sarebbe inoltre ben gravida di conseguenze pratiche drammatiche: in effetti, l’integrazione della possibilità di un genocidio etnocidiario accrescerebbe considerevolmente il rischio di una sua ripetizione giacché una possibilità integrata è per definizione una cosa che diviene passibile di essere presa in considerazione, e questa è per una virtualità la prima condizione necessaria sul cammino della sua realizzazione. E’ la ragione ultima per la quale io dicevo prima che una lezione su Auschwitz che non pervenga a trasformare i suoi destinatari è una perdita assoluta e non solamente un’operazione inutile.

b) la seconda possibilità è uno statu quo poco soddisfacente nel quale la messa in evidenza della singolarità della Shoah porta a far considerare che c’è in effetti una frattura tra essa (che rappresenta il solo intollerabile) e tutto il resto (che può allora essere tollerato). In altre parole, ed è un nuovo effetto perverso dell’insistenza esclusiva sulla singolarità, questa conduce non solamente a banalizzare teoricamente gli altri crimini ma anche e soprattutto a neutralizzarli eticamente. L’attualità dell’ex-Yugoslavia fornisce purtroppo l’occasione di mille “sbandamenti” dove rappresentanti autorizzati delle diverse memorie di Auschwitz provano il bisogno di far notare che è certamente atroce ma che non si tocca tuttavia là lo stesso grado di orrore di 50 anni fa.

La memoria di Auschwitz diviene dunque in questo contesto un alibi per una quantità di ingiustizie… . La sola consolazione in questa ottica, a differenza di quanto si verifica nello scenario precedente, è che il genocidio etnocidiario rimane fatto oggetto di un interdetto categorico.

c) la terza, per la quale mi batto, è di utilizzare il riferimento ad Auschwitz per debanalizzare e delivellare una moltitudine di fenomeni che noi non tolleriamo se non perché ci siamo abituati ad essi e vi siamo condizionati da secoli. Come nessuna spiegazione causale riesce a farci
riconciliare col fatto di Auschwitz, nessuna dovrà riuscire a farci riconciliare con altri fenomeni scandalosamente intollerabili. E’ tempo di renderci conto che, proprio come nell ‘articolazione evocata prima tra il normale e l’anormale, il paragone tra Auschwitz e altri crimini -civili e militari- può avere come effetto, piuttosto che di appianare i crimini nazisti, di delivellare gli altri. Se un aspetto determinato di Auschwitz si ritrova in quell’altro fenomeno, non bisogna temere di veder Auschwitz amalgamato e ridotto; al contrario sotto questo rapporto è il carattere intollerabile di questo fenomeno che ridiventa percepibile attraverso il prisma di Auschwitz, prisma che è allora un’arma per polverizzare le apparenze di spiegazioni-giustificazioni sedimentate nella nostra storia per far “digerire” tutto quello che offende nello stesso tempo la ragione e la morale 39. In questa prospettiva, siccome la nostra soglia di tolleranza all’oppressione e allo sfruttamento diminuisce drasticamente, noi siamo spontaneamente indotti a resistervi d’ora in avanti e si può sperare che il mondo ne sia cambiato (e di conseguenza anche che noi possiamo nuovamente fidarci di lui, restituirgli la fiducia che Auschwitz ci ha fatto perdere).

Sto sognando, senza dubbio, ma non c’è nulla di male a spingere un ragionamento fino al limite (fino all’utopia) perché si scopre finalmente che ciò che noi ci aspettiamo in definitiva da una lezione su Auschwitz nulla di meno che _un nuovo rapporto con la storia. Se l’obiettivo è raggiunto allora Auschwitz, nella misura stessa in cui è stato per il destinatario all’origine dell’instaurazione di questo nuovo rapporto, -allora AuschwItz dico io acquista per il destinatario lo statuto di una singolarità assoluta della memoria: Auschwitz, simile in ciò a nient’altro, è stato, si dirà, un giro di boa nel mio rapporto con la storia e dunque necessariamente anche nel mio rapporto col mondo 40. Se questa crisi potesse essere provocata in un numero sufficientemente importante di persone, essa prenderebbe lo statuto di un giro di boa nella storia tout court (e non solamente nella storia di un numero limitato di individui). Allora, e questo sarebbe, credo, il solo omaggio che noi potremmo rendere alle vittime, uno storico del terzo millennio potrà scrivere: c’è stato Auschwitz, e niente dopo fu più come prima… Sarebbe rendere alla memoria di Auschwitz una audacia che ha un poco perduta dopo anni sulla difensiva quella di esigere in nome suo una revisione globale della storia che farebbe fremere i “revisionisti”, (negazionistí o banalizzatori) di ogni pelo. Ma, bisogna insistervi, rivedere tutto alla luce di Auschwitz non significa assolutamente amalgamare tutto ad Auschwitz. Si tratterà semplicemente di considerare d’ora in avanti il passato e la storia alla ricerca di ciò che ci sarà da rifiutare piuttosto che alla ricerca del buon tempo antico o di ciò di cui potremmo glorificarci. E’ un’ euristica, non una colpevolizzazione forsennata, né una fascinazione per l’orrore ma solamente la speranza di un rapporto più efficace col passato: la memoria di Auschwitz come punto di vista indissociabilmente cognitivo ed etico sulla storia universale.

[…]

Auschwitz oblige? Sì, Auschwitz ci costringe a un nuovo rapporto con la storia, ad un rapporto critico con la totalità del passato che ci ha fatti quello che siamo. Come si attesta il fatto che l’obbligazione fatta da Auschwitz sia effettivamente integrata? Per il fatto che esso passa, attraverso un processo di crisi, dallo stato di singolarità storica relativa a quello di singolarità memoriale assoluta. E come si attesta questa singolarità memoriale? Per il fatto che essa segna una svolta nella storia…
Partiti interrogandoci sulle periodizzazioni di Auschwitz, finiamo per considerare Auschwitz come momento-chiave di una nuova periodizzazione della storia universale. Ciò non è tanto stupefacente nella misura in cui dopo l’inizio noi avvertiamo bene che una risposta solamente teorica ad Auschwitz è votata allo scacco: Auschwitz obbliga a ben di più che uno sforzo teorico…
Ma è chiaro che se Auschwitz possiede tutte le caratteristiche richieste per divenire l’inizio di un periodo storico, non ne segue per nulla che lo diventerà automaticamente. Qui la nostra responsabilità come insegnanti e/o militanti si fa schiacciante. Se noi non riusciamo a presentare la memoria di Auschwitz in una configurazione capace di convincere effettivamente i nostri interlocutori che essa ha in tutto e per tutto l’importanza che noi le accordiamo, se fra trenta o cinquant’anni Auschwitz non significherà per le generazioni di allora, niente di più di quello che Verdun significa oggi per noi, (per riprendere uno spettro recentemente agitato da Arno Mayer), sarà colpa nostra e, al di là, sarà, per il genere umano, una perdita…
Non posso Impedirmi di tremare se penso a ciò che sarà necessario perché si presenti una nuova occasione: se Auschwitz non è stato sufficiente, che cosa sarà?