Gli internati militari italiani

di Alberto Cavaglion e Mario Marcarino

(tratto da Internamento militare e civile nei lager nazisti / a cura di Mario Marcarino ; ricerca di Alberto Cavaglion. – Cuneo : Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, [1980?]

Prigionieri russi e polacchi orrendamente mutilati provenienti da un campo di concentramento nazista

All’8 settembre 1943, circa 650.000 militari italiani si trovavano nei campi di prigionia degli Alleati, disseminati nei cinque continenti. Tutti erano trattati secondo gli accordi internazionali, così come, normalmente, lo erano i militari delle Nazioni Unite caduti in mano tedesca, ad eccezione dei russi (l’Unione Sovietica non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra).
Il particolare accanimento tedesco contro i militari italiani – conseguenza della capitolazione, anzi, del « tradimento » del governo Badoglio – si manifestò immediatamente con i feroci massacri dei prigionieri di Cefalonia, dell’Egeo, di Corfù, dell’Albania, e di ogni altro luogo in cui, in Italia e all’estero, le forze armate italiane avevano opposto resistenza al disarmo e alla cattura (l’8 settembre, l’Italia non aveva dichiarato guerra alla Germania, cioè non vi era stato un « rovesciamento del fronte »).
L’atteggiamento persecutorio nei confronti dei « soldati badogliani » si perpetuò nei Lager germanici e, per di più, i tedeschi riuscirono ad eludere, con la complicità dei fascisti di Salò, ogni forma di controllo e di intervento internazionale a favore dei prigionieri italiani (a fine guerra mancarono, per lo stesso motivo, statistiche sugli italiani deceduti in Germania).
La costituzione della repubblica sociale (23 settembre, dopo la liberazione di Mussolini) offrì, infatti, ai tedeschi il pretesto per sospendere l’invio a Ginevra delle « cartoline di cattura »: gli italiani furono considerati « internati militari », non protetti, perciò, dalla convenzione del 1929, sullo specioso rilievo che essi, appartenenti a uno Stato alleato della Germania (la R.S.I.), non erano prigionieri di guerra, bensì militari temporaneamente dislocati all’estero, in attesa di essere reimpiegati.
La R.S.I. si riprometteva con tale reimpiego, che prevedeva imponente, importanti obiettivi politici e militari: l’adesione degli internati al costituendo esercito di Graziani avrebbe dato prestigio al nuovo Stato fascista, sia nei confronti degli oppositori interni, sia nei rapporti con l’alleato tedesco, tenuto anche conto del non trascurabile apporto di combattenti « di sicura fede fascista » che Mussolini avrebbe procurato in tal modo alle forze dell’Asse.
Nonostante lo scetticismo del Comando Supremo tedesco sul raggiungimento di tali obiettivi, fu prevista, come personale favore di Hitler nei riguardi di Mussolini, la costituzione di quattro divisioni, da addestrare in Germania, con contingenti tratti dai campi di concentramento, integrati dai coscritti della classe 1924, che sarebbero affluiti a partire dal 15 novembre 1943. Le divisioni erano: la San Marco, la Monte Rosa, la Littorio e l’Italia, che sarebbero state rimpatriate, ad ultimato addestramento, e avrebbero costituito il primo nucleo del futuro esercito repubblicano, di 25 divisioni complessive.
Prima ancora della costituzione della R.S.I., ai militari italiani era stato proposto, subito dopo la cattura, di collaborare, come combattenti o come lavoratori, con le forze armate tedesche (secondo quanto già praticato, ad esempio, con i prigionieri russi), ma esigue erano state le adesioni, anche se con esse si era potuto evitare il duro impatto con la prigionia e la deportazione in Germania. Costituita la R.S.I., l’adesione per le previste unità italiane appariva più dignitosa e le prospettive di rimpatrio degli aderenti non mancarono di essere magnificate dal governo fascista, con adeguata propaganda sia nei Lager, sia in Italia, ottenendo che alle pressioni esercitate direttamente nei campi dagli emissari fascisti si aggiungessero quelle delle famiglie in attesa.
Contemporaneamente, pervennero dall’Italia, da parte di ditte e di enti vari, numerose richieste nominative di personale ritenuto necessario nell’attività esercitata anteguerra, accompagnate ed appoggiate dal caldo invito delle famiglie (ma, anche in tali casi, l’adesione implicava il riconoscimento della R.S.I.).
Per gli internati (oltre 600.000 uomini) fu questo il problema centrale: resistere alle pressioni politiche e familiari e, con esse, alla nostalgia della Patria, alla fame (le calorie giornaliere scesero progressivamente ben sotto le 1.000 e si rimediava mangiando i topi delle baracche) e al freddo (l’inverno 1943 -1944 fu particolarmente crudo e i tedeschi, a ragion veduta, mandarono gli internati, senza vestiario adeguato, a svernare nei Lager della Polonia fino allora riservati ai soli russi che erano morti a migliaia); oppure, con l’adesione, riconoscere come legittimo il governo della repubblica sociale. Era una scelta cui gli internati non potevano comunque sottrarsi e, rimanendo nei campi, restava l’amara consapevolezza che con una semplice firma si sarebbe potuto evitare, oltre alle sofferenze morali e fisiche, il prevedibile rischio di soccombere (circa 40.000 internati pagarono con la vita il loro rifiuto, altri, a causa delle sofferenze e della denutrizione, contrassero malattie e invalidità che, dopo la liberazione, li costrinsero a lunghi soggiorni in ospedali e convalescenziari o li condussero a morte).
Come reazione alla pressante propaganda nazifascista, nacque all’interno dei Lager la resistenza alle adesioni. La questione che, inizialmente, ciascuno aveva risolto secondo le proprie inclinazioni o, più semplicemente, paventando di rimanere in balia dei tedeschi, divenne un problema collettivo, in una più ampia visione degli avvenimenti e nella meditata riflessione su quale fosse il dovere verso la Patria. Le conferenze di carattere culturale, le adunate regionali e d’arma, gli stessi sermoni dei Cappellani, furono pretesto ed occasione per approfondire il problema e per una attiva contropropaganda che i tedeschi non tardarono a scoprire e a reprimere, pretendendo la preventiva censura sugli argomenti trattati in tali manifestazioni (gli « indesiderabili » venivano ripetutamente trasferiti di campo). Ciò non impedì tuttavia che l’opera di dissuasione continuasse, clandestinamente e capillarmente, attraverso i riservati colloqui nelle baracche e, in ogni occasione, nei ricercati contatti personali con gli incerti e i più esposti alle contrarie sollecitazioni.
Un fattore di resistenza particolarmente efficace fu il giuramento militare che impegnava ciascuno ad obbedire al governo legittimo, nonostante che Mussolini avesse sciolto gli internati dal giuramento al re. Tale fu la forza esemplare del giuramento che centinaia di giovani ufficiali, che all’atto della cattura non avevano ancora giurato, vollero prestare giuramento in prigionia, in segrete, commoventi cerimonie collettive, presente la Bandiera e, talvolta, individualmente.
Altro elemento che contribuì a rafforzare la resistenza fu la dichiarazione di guerra del governo italiano del Sud alla Germania (13 ottobre 1943), dichiarazione che veniva a sancire formalmente lo stato di guerra che esisteva di fatto tra Italia e Germania fin dall’8 settembre, per iniziativa tedesca.
La contropropaganda, che, spontaneamente, si sviluppò in ogni Lager, sortì effetti diretti e indiretti: gli aderenti non superarono l’1,03% e moltissimi furono i disertori che, al rimpatrio delle divisioni repubblicane, passarono ai partigiani (vedasi, ad esempio: G. Milano, Nebbia sulla Pedaggera , per quanto riguarda la « San Marco », che, rimpatriata nell’ago-sto 1944, operò nelle valli del Tanaro e della Bormida). Senza parlare poi degli effetti negativi che il mancato rientro, di intuitivo significato politico, della gran massa degli internati ebbe sulla popolazione dell’Italia occupata, nei rapporti sia con i tedeschi invasori, sia con le autorità fasciste. Evidente, infine, l’importanza, sul piano politico internazionale, dell’ atteggiamento assunto nei confronti del fascismo da una massa così qualificata di italiani (erano militari delle leve cresciute nell’ « ardente clima del littorio »).
Ne risultò, ad ogni richiesta, un sempre minore numero di aderenti, malgrado le pressioni reiterate per mesi e mesi e l’aggravarsi delle restrizioni di volta in volta minacciate e puntualmente messe in atto come principale mezzo di coercizione.
La responsabilità di tali vessazioni risaliva sia ai tedeschi, sia alla R.S.l.; allorquando, ad esempio, per venire incontro alla disastrosa situazione degli internati, la Croce Rossa Internazionale – sebbene tagliata fuori da ogni controllo dei Lager – offrì alle autorità di Salò il suo aiuto, queste subordinarono l’accettazione degli invii di viveri e di medicinali «alla eliminazione di ogni etichetta o contrassegno delle merci e dei generi, in quanto tutti di provenienza di paesi sotto il controllo del nemico»; e, poiché la Croce Rossa non accettò tale condizione, assurda quanto in mala fede, nessun aiuto poté giungere agli internati.
Ciò fu tanto più grave perché la R.S.I., e per essa il S.A.I. (Servizio Assistenza Internati), aveva, a Berlino, forti disponibilità di viveri e medicinali con le quali avrebbe potuto alleviare le condizioni degli internati; ma il S.A.I., istituito in antitesi alla Croce Rossa, aveva per scopo statutario di « assistere materialmente e moralmente gli internati, con mira principale il risveglio del sentimento di orgoglio nazionale »: in altri termini, gli aderenti.
Coerentemente a tale linea d’azione, i tedeschi, dopo l’adesione, cui conseguiva immediatamente un diverso trattamento, trattenevano per qualche tempo gli optanti, prima di trasferirli nei campi d’addestramento, nei campi d’origine, come zimbelli, perché i resistenti constatassero di quale abbondante alimentazione e di quale vestiario li avrebbe forniti la repubblica sociale, se avessero aderito.
A parte il raffronto con la diversa sorte riservata agli altri prigionieri (francesi, belgi, iugoslavi, ecc. si trovavano talvolta in campi confinanti con quelli dei militari italiani), cominciarono a farsi sentire le conseguenze della lunga fame e del freddo, nonché delle pessime condizioni igieniche. Cimici, pulci, pidocchi rendevano incombenti le minacce di epidemie: quelle di tifo petecchiale, che già avevano mietuto negli stessi campi migliaia di russi, rifecero la loro comparsa (dichiarata la quarantena e senza medicine, il cibo veniva passato attraverso il reticolato). La tubercolosi, le oligoemie, gli edemi da fame aumentavano, e anche gli ospedali, per l’assoluta mancanza di medicine e la persistente scarsità di cibo, offrivano poco sollievo: nei soli Lazarettlager di Zeithain, di Górlitz e di Fullen – tre fra i vari ospedali per internati – morirono 2.258 militari. (Nell’ospedale di Zeithain si trovavano anche un gruppo di crocerossine catturate con l’ospedale militare italiano di Atene e un altro gruppo proveniente dalla Croazia; internate in violazione della Convenzione Internazionale, avevano rifiutato di aderire alla R.S.I.).
Anche per il resto, le prospettive non erano incoraggianti. Il trattamento inflitto dai tedeschi, esasperati dal fermo contegno della massa degli internati, si faceva sempre più duro: estenuanti trasferimenti da campo a campo, interminabili appelli nella neve, con temperature bassissime, continue umiliazioni, percosse. In vari campi si ebbero esecuzioni sommarie di singoli e collettive, per infrazioni disciplinari anche lievi; per i più ostinati vi erano i campi di punizione o il trasferimento ai KZ, come, ad esempio, a Dora, dove morirono per le sevizie 296 militari; ad Hildesheim, nell’Hannover, furono impiccati 132 militari dei circa 500 addetti allo sgombero delle macerie dei bombardamenti; 150 militari furono fucilati nel Lager di Sebalduschof di Treuenbrietzen, e così via in una serie incontrollabile di assassini.
Nel febbraio 1944 erano praticamente cessati gli arruolamenti per l’esercito di Graziani; continuarono, invece, con gli stessi metodi, le pressioni per le adesioni al lavoro (invece degli emissari fascisti, venivano ora nei Lager gli imprenditori tedeschi per scegliere gli elementi da ingaggiare). Fin dall’inizio, i tedeschi, con brutale sfruttamento, avevano impiegato i soldati e i sottufficiali italiani nelle miniere e nell’industria e, in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, anche in attività attinenti alla produzione bellica; altrettanto si verificò più tardi, per gli ufficiali, con l’invio generale al lavoro coatto.
Il 20 luglio 1944, infatti, con l’accordo Hitler-Mussolini fu adottata una soluzione radicale per il problema del lavoro. Premesso che la situazione interna italiana (così aveva fatto presente Mussolini) non aveva consentito negli ultimi mesi di fornire alla Germania il contingente di mano d’opera previsto, e che ultimamente era stato chiesto alla R.S.I. un contributo di circa un milione di unità lavorative, si stabilì che il potenziale lavorativo degli internati militari venisse « sfruttato in pieno per il processo di produzione germanica ». Si escluse con ciò, da parte italiana, « qualsiasi richiesta di rimpatrio », apparendo nocivo reintegrare nella madrepatria degli elementi che, « a causa delle loro condizioni morali, avrebbero potuto facilmente passare al campo avversario ».
La soluzione, il cui unico lato positivo fu quello di sottrarre centinaia di migliaia di italiani dell’Italia occupata alla deportazione in Germania per il lavoro forzato, ebbe per effetto che i tedeschi si sentirono autorizzati ad usare ogni costrizione per fare uscire dai Lager tutti gli internati e impiegarli nelle industrie, comprese quelle belliche.
Era, però, un accordo che, non solo trasformava arbitrariamente gli internati militari in civili, (cosiddetti « liberi lavoratori »), ma che la Germania aveva stipulato con la R.S.I., cioè con un governo che gli internati avevano sempre rifiutato di riconoscere.
Di fronte alla ostinata resistenza dei « badogliani », i tedeschi non si arrestarono e gli internati, ufficiali compresi (questi ultimi, privati a forza dei gradi), vennero inviati al lavoro sotto la sorveglianza della polizia, mentre i più ribelli furono trasferiti negli orrendi « campi di rieducazione al lavoro »; esemplare, fra altre, fu la resistenza opposta da un gruppo di 44 ufficiali di Wietzendorf, i quali scelsero di affrontare nel campo di Unterluss disumane sofferenze e, per alcuni di essi, la morte.
Solo gli ammalati più gravi vennero concentrati nei Lazarettlager (i campi della morte), dove – dopo vane promesse di rimpatrio – attesero tra la vita e la morte e senza alcun miglioramento dell’ordinario trattamento, la fine della guerra che molti non riuscirono a vedere.
Sulla situazione degli I.M.I., così si era espresso, fin dal 27 marzo 1944, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia: « Il C.L.N.A.I., a notizia del selvaggio trattamento al quale vengono sottoposti, da parte degli aguzzini nazisti, gli ufficiali ed i soldati italiani internati nei campi di concentramento in Polonia che si sono rifiutati di prestare servizio nelle organizzazioni militari e civili tedesche; esprime a questi coraggiosi – che pur brutalizzati e seviziati in tutti i modi, in una suprema affermazione di dignità e di fierezza, hanno voluto negare ogni collaborazione e prestazione al nemico – la sua solidarietà e l’ammirazione dei liberi e degli onesti di tutto il mondo; denuncia i responsabili dei delitti e delle atrocità affinché siano, a suo tempo, giudicati e giustiziati come criminali di guerra».
L’odissea degli internati si concluse, con la fine della guerra in Europa, nell’aprile -maggio 1945. Per oltre tre anni essi avevano combattuto su tutti i fronti, compiendo il loro dovere di militari; per venti lunghi mesi in mano di un feroce nemico, avevano lottato contro il fascismo, come uomini liberi, ed avevano avuto fra i reticolati, come già sui campi di battaglia, i loro Caduti.