Gli internati civili italiani

di Alberto Cavaglion e Mario Marcarino

(tratto da Internamento militare e civile nei lager nazisti / a cura di Mario Marcarino ; ricerca di Alberto Cavaglion. – Cuneo : Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, [1980?]

Alcune immagini della vita nei campi di concentramento nazisti

L’istituzione dei campi di concentramento per prigionieri di guerra è un fenomeno comune a tutti i conflitti armati tra Stati; il sistema concentrazionario, adottato dai tedeschi nel conflitto 1939-45 nei confronti della popolazione civile dei territori occupati (1), trova invece riscontro, e premessa, unicamente in ciò che accadde in Germania fin dal 1933 con l’avvento di Hitler al potere.
Il campo di Dachau nacque, infatti, nel corso dello stesso anno 1933 e, successivamente, ancora in tempo di pace, vennero gradualmente istituiti quelli di Sachsenhausen, Buchenwald. Mauthausen, Flossenburg, Ravensbruck. All’inizio della guerra, si trovavano rinchiusi in tali campi 20.000 civili tedeschi: vi erano ebrei, in quanto, per definizione, nemici della razza tedesca, e vi erano elementi indiziati o sospettati di potenziale opposizione attiva al nuovo regime (non era necessario alcun provvedimento giudiziario; era sufficiente, per l’internamento, un semplice provvedimento di polizia).
Questa violazione dei diritti fondamentali dell’ uomo e del cittadino -la « rieducazione » nei campi significava, praticamente, la eliminazione dal consorzio civile- era stata possibile in forza del decreto presidenziale di emergenza emanato il 29 febbraio 1933, che aveva introdotto nel sistema legale della Germania la «Schutzhaft », o custodia protettiva.
Con l’inizio della guerra, analogo sistema fu adottato, su larga scala, dalla Germania nei territori occupati; ciò, in aperta violazione del Regolamento dell’Aja del 1907 circa le leggi e i costumi della guerra terrestre, il cui articolo 46 stabiliva, a garanzia dei civili: «Devono essere rispettati l’onore e i diritti della famiglia, la vita delle persone e la proprietà privata, le convinzioni e le pratiche religiose ».
Negli anni 1940-42, parallelamente al saccheggio nazista dei paesi occupati, vennero costituiti altri nove campi (durante la guerra, i campi principali furono oltre una trentina).
Nel corso del 1942, però, quando alla scarsità della manodopera necessaria per le industrie tedesche non fu più sufficiente sopperire con l’impiego dei prigionieri di guerra (2) e con l’afflusso dei lavoratori coatti, razziati nei territori invasi, le finalità del regime di concentramento cambiarono: i dirigenti nazisti decisero che la guerra aveva portato ad un’evidente modifica strutturale dei campi e ad un mutamento radicale dei loro compiti per ciò che si riferiva all’impiego degli internati civili; la custodia di costoro per puri motivi di sicurezza, educativi o preventivi, non occupava più un posto di primo piano; l’aspetto più importante era diventato quello economico (3).
Da allora, vennero utilizzati nel lavoro produttivo milioni di internati civili e, quando, per l’insufficiente cibo e l’inumano sfruttamento, essi erano divenuti elementi improduttivi, si procedeva -in base a periodiche « selezioni » condotte con tale criterio- alla loro eliminazione. La vita media degli internati, in taluni campi, non superava i 2-3 mesi, ma nuove fiumane giungevano a sostituirli, sì da assicurare una costante disponibilità del potenziale lavorativo.
Dei dodici milioni di civili, uomini, donne, bambini dei territori occupati (tra cui oltre sei milioni di ebrei, in buona parte soppressi nei ghetti di Varsavia, Bialystock, Minsk, Riga, Vilna), che i tedeschi misero a morte durante la guerra, si calcola che non meno di otto milioni morirono nei campi di concentramento.
Ciò si verificò perché, oltre all’alta mortalità che si ebbe nei singoli campi per esaurimento o per punizioni collettive, gli internati inutilizzabili nel lavoro venivano fatti affluire, per essere soppressi in massa, nei campi di sterminio di Chelmo, Belzec, Solibor, Treblinka, Auschwitz – Birkenau, Majdanek. In tali campi, idonee attrezzature industriali di camere a gas -che avevano sostituito gli artigianali « furgoni a gas » dei primi tempi- e di annessi forni crematori provvedevano sollecitamente alle eliminazioni: ad Auschwitz, ad esempio, si raggiunsero le 10.000 unità giornaliere.
Anche in Italia i tedeschi istituirono un campo di sterminio, la Risiera di San Sabba, a Trieste, dotato di una camera a gas e di un forno crematorio.
Le eliminazioni in massa avvenivano altresì in altri campi minori (Riga, ViIna, Minsk, Kaunas, Lvòv); ivi si operava mediante fucilazione o impiccagione. Taluni campi adottavano anche iniezioni letali praticate dal personale medico. (In tutti i campi, indistintamente, il tentativo di suicidio era severamente punito quale atto di ribellione).
Lo sfruttamento degli internati con adeguata organizzazione del relativo servizio si completava dopo la morte, utilizzandone i denti d’oro, gli oggetti che erano riusciti a nascondere nelle perquisizioni, i capelli, le ossa, che, frantumate a mano o in apposite macinatrici, servivano da concime. Tal volta le montagne di ceneri dei crematori erano semplicemente disperse; pietoso e raccapricciante è quanto riferisce una superstite del campo di Ravensbruck «Tirano (le internate a ciò addette) delle carriole come quelle usate dai muratori, piene di cenere grigia. E’ difficile accettare l’idea che quella cenere
tutto quello che resta del corpo di tante compagne che vediamo sparire dai blocchi » (4).
Internati che avessero sul corpo tatuaggi artistici venivano messi a morte per utilizzarne la pelle nella confezione di oggetti ornamentali per le famiglie delle SS del campo.
Altri internati (uomini, donne, bambini) venivano impiegati, vivi, come cavie, per esperimenti medici (innesti di ossa, congelamento artificiale, prelievi di organi, sterilizzazione); a ciò presiedeva personale medico addetto a tali ricerche, il più delle volte pseudo – scientifiche.
Quando gli italiani -dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943- cominciarono ad affluire nei Lager tedeschi una prima «selezione» degli abili al lavoro veniva già da tempo effettuata fin dall’arrivo nel campo. Narra Primo Levi, superstite di Auschwitz, dove giunse nel febbraio 1944: « In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire né allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri » (5).
Della « selezione » di un trasporto giunto a Birkenau il 23 maggio 1944, riferisce Lina Valabrega Verona di Torino, sopravvissuta all’internamento (6):
«All’arrivo, lasciati sui carri i bagagli, di cui venimmo depredati, e fatti pochi passi, un tedesco giudicava e mandava a destra e a sinistra le sue vittime, cioè chi al lavoro e chi, in maggioranza decupla, al crematorio, così tutti gli ebrei di Saluzzo ».
Un’idea di ciò che fosse l’esistenza in un campo di concentramento ci è data in breve dalla testimonianza della stessa Valabrega: «Denudate, depilate, marchiate sul braccio con un degradante numero indelebile, che ci toglieva nome, personalità, sesso, rivestite di stracci immondi limitati all’indispensabile, senza fazzoletto, con scarso vitto che sorbivamo in cinque in un’unica scodella, brodo di rape, 120 grammi di pane ammuffito, con una fettina di salame o margarina, forzate a sedici ore di pesante lavoro giornaliero, di cui quattro per appelli, sulla neve, sotto la pioggia o il sole cocente, irrigidite sull’attenti, sorvegliate da guardiane più rabbiose dei loro cani, agognavamo il lurido giaciglio di tavole, su cui in dieci donne, con una sola coperta in comune, tentavamo di abolire nel sonno ogni nostra sofferenza ».
Per quanto si riferisce alla situazione degli ebrei italiani, è noto che le leggi razziali vennero emanate in Italia nel 1938 sull’esempio tedesco: fu, questo, il primo atto di asservimento politico al nazismo. Sebbene fossero state adottate misure vessatorie e, nel maggio 1942, fosse stata disposta la « precettazione a scopo di lavoro degli appartenenti alla razza ebraica », la persecuzione non aveva mai raggiunto gli eccessi di quella tedesca.
Subito dopo il 25 luglio 1943, pur non essendosi provveduto ad abrogare le leggi antisemite (ciò avrebbe inevitabilmente urtato i tedeschi), il governo Badoglio aveva ufficiosamente informato le comunità israelitiche che nessun ulteriore provvedimento sarebbe stato adottato ai loro danni.
Con l’armistizio e la conseguente occupazione tedesca, cominciarono nell’Italia centro-settentrionale i primi rastrellamenti di ebrei. Nel novembre 1943, dopo il congresso di Verona, la R.S.I. si aggiornò in materia razziale (si affermò, fra l’altro, in tale congresso, che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri») e, con ordinanza del 30 dello stesso novembre diramata alle Prefetture, il ministro degli interni, Buffarini-Guidi, dispose l’invio di tutti gli ebrei in campi di concentramento italiani; il che fu facilitato dagli elenchi istituiti nel 1938, ancora conservati presso le Questure. In un primo tempo, come stabilito dalle autorità italiane della R.S.I., vennero esclusi dall’internamento i malati gravi e gli ultrasettantenni, ma, verso la fine del gennaio 1944, i tedeschi pretesero che si agisse indiscriminatamente.
Fu, questo, il primo passo per l’avvio degli ebrei ai campi di concentramento tedeschi (che si ebbe pochi mesi più tardi), cioè verso la « soluzione finale » anche del problema ebraico italiano, così come era avvenuto negli altri paesi invasi dai nazisti. Tale «soluzione finale» era stata indicata, fin dal 1940 -sulle orme di « Mein Kampf » – dall’organo ufficiale delle SS, « Das Schwarze Korps », nei seguenti termini: «Poiché la questione ebraica sarà risolta in Germania solo dopo la fine dell’ultimo ebreo, così il resto dell’Europa deve comprendere che la pace tedesca che essa attende sarà una pace senza ebrei».
Coerentemente a tali radicali propositi, agli ebrei era stata tolta anche la possibilità di emigrare in paesi extraeuropei, perché non vi alimentassero, con la loro viva testimonianza, quelle correnti antinaziste che si erano sviluppate negli Stati democratici per effetto delle persecuzioni razziali già prima della guerra.
Così come negli altri paesi occupati dai nazisti, anche in Italia moltissime vittime della deportazione, oltre che fra gli ebrei, vanno annoverate fra i partecipanti alla cospirazione politica, alla lotta partigiana (combattenti, staffette, fiancheggiatori), agli scioperi nelle industrie, fra tutti coloro, insomma, che sopravvissero alle torture subite negli «uffici politici» e nelle carceri perché oppositori del nazifascismo, o che non furono trucidati subito dopo la cattura. Non poche lapidi, nelle campagne e negli abitati, testimoniano il sacrificio dei caduti in tali circostanze: valga, per tutti, quella che, a Centallo, ricorda l’assassinio (3 dicembre 1944) di Tancredi Galimberti, medaglia d’oro al valore militare.
A seguito dello sciopero generale del marzo 1944 nelle industrie del Nord Italia – sindacalismo e lotta di liberazione ne erano alla base – nella sola Torino oltre 700 operai vennero deportati nei campi di concentramento tedeschi; furono, inoltre, numerosi i licenziati o i ricercati che, per sottrarsi all’arresto, affluirono nelle formazioni partigiane (7).
Negli stessi campi furono anche concentrati i fuorusciti italiani sorpresi dall’occupazione tedesca dei paesi europei nei quali avevano trovato asilo durante il ventennio fascista, nonché contingenti di militari italiani, come, ad esempio, nel campo di Dora Nordhausen.
Infine, zingari, asociali in genere, delinquenti tedeschi comuni della peggior specie (a costoro erano affidate nei campi mansioni di sorveglianti, che assolvevano con particolare zelo e ferocia, con l’immancabile bastone di gomma) costituivano la cosmopolita popolazione dei Lager (in uno stesso campo si parlavano, talvolta, sino a 26 lingue).
Fra tali categorie, i più «pericolosi» per attività antinazista venivano assoggettati al particolare regime degli « N. N. » (Nacht und Nebel): catturati e non immediatamente soppressi, si faceva perdere per sempre ogni loro traccia, sparivano « nella notte e nella nebbia ». Il generale Keitel, capo dell’OKW, riconobbe, al processo di Norimberga, che, tra tutti i crimini di guerra, i peggiori derivarono dal « decreto Notte e Nebbia », emanato personalmente da Hitler il 7 dicembre 1941, cui Keitel si uniformò impartendo i relativi ordini, secondo i quali tutti i condannati a morte non eliminati entro otto giorni dalla cattura, erano trattati come « N. N. ».
Gli italiani, tra l’eterogenea popolazione del mondo concentrazionario, si trovarono esposti, oltre che alla situazione generale, alle diffidenze e ai pre-giudizi degli altri deportati, specialmente dei paesi che avevano direttamente sofferto della partecipazione italiana alla guerra nazista: «Ogni qual volta arrivavano nei lager dei gruppi di italiani, vi era chi li accoglieva con grida ostili, Banditen, idioten, Mussolini, Badoglio, maccaroni » (8).
Un ulteriore aggravamento della situazione degli italiani derivò dal fatto che essi si trovarono improvvisamente calati in un mondo che da anni aveva una sua logica organizzativa, risultante dalla aspra lotta di accaparramento dei posti direttivi anche infimi, che, in cambio della completa soggezione ai voleri delle SS potevano assicurare una meno improbabile sopravvivenza e rendere anche possibile qualche aiuto ai propri connazionali. Ciò nondimeno, a poco a poco gli italiani seppero superare tali difficoltà e diffidenze, riuscendo, in alcuni campi, persino a far parte dei «Comitati internazionali dei prigionieri», la cui opera si rivelò particolarmente utile nei giorni critici della liberazione, riuscendo a salvare migliaia di internati (9).
Al di sopra di ogni differenza di nazionalità, di ideologia, di religione, di sesso, un elemento accomunava però gli internati in qualsiasi campo: la «spersonalizzazione» e la conseguente persuasione coercitiva a risocializzarsi secondo le feroci leggi del mondo concentrazionario.
Contribuivano, studiatamente, a tale risultato la sostituzione del nome con un numero, la privazione degli abiti (si indossavano la casacca zebrata o stracci segnati con una grande croce) e di ogni oggetto personale, la mancanza, quasi sempre, di un posto-letto fisso, l’atroce fame, la confusione delle lingue, l’estenuante lavoro, lo scarso riposo, la morte sempre incombente, le botte e peggio (l’insufficiente rendimento lavorativo era severamente punito come «sabotaggio»), i trasferimenti da campo a campo o sui luoghi di lavoro, l’esposizione alle intemperie, l’ansia continua derivante dagli ordini incompresi, sotto la sferza dei Kapo, il violento distacco dalla precedente vita familiare e sociale, la promiscuità fra individui di diversa provenienza e differenti abitudini, l’impossibilità, sia di giorno sia di notte, di trovarsi soli con se stessi.
In tale situazione, sarebbe stato impossibile distinguere, per ciascun individuo, se i disagi materiali superassero quelli della solitudine morale, ma certamente tutto contribuiva a fiaccare in poco tempo ogni possibilità di ribellione o di qualsiasi reazione all’ambiente in cui si viveva; l’intero sistema di valori a cui l’internato si rifaceva prima della sua deportazione era capovolto. Primo Levi ha così definito l’internato: « Un uomo vuoto ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso » (10).
L’ultimo stadio della degradazione in cui precipitava l’internato era, per molti, quello della « rnusulmanizzazione »; coloro i quali avevano perduto la volontà di vivere, si disintegravano come persone e si riducevano presto a divenire dei cadaveri viventi
o, come era detto usualmente nei Lager, dei « musulmani » (11).

NOTE

1.Può notarsi che mentre l’internamento dei civili da parte dei tedeschi ebbe carattere europeo, l’internamento dei militari rigurdò soltanto gli appartenenti alle forze armate italiane, che furono differenziati dagli altri prigionieri di guerra.

2. Nel febbraio 1942, dei 3.600.000 prigionieri di guerra russi, solo alcune centiania di migliaia erano ancora in grado di lavorare; gli altri erano morti di fame e di freddo.

3. Direttive impartite in data 30 aprile 1942 dal capo dell’Ufficio economico delle SS, gen- Pohl, aventi per oggetto “Inquadramento dell’Ispettorato dei campi di concetramento nell’Ufficio centrale SS Economia e Amministrazione”

4.Lidia Beccaria Rolfi, Le donne di Ravensbruck, pag. 66

5. Primo Levi, Se questo è un uomo, pag. 20

6. La Valabrega, arrestata a Torino il 12 aprile del 1944 e internata nel campo di raccolta di Fossoli, viaggiò alla volta di Birkenau nello stesso vagone ferroviario che trasportava il secondo gruppo di ebrei arrestati a Saluzzo nell’Aprile del 1944.

7. R. Luraghi, Il movimento operaio torinese durante la Resistenza, pag. 188

8. G. Melodia, Un documento militare americano sul lager di Dachau, nel <<Movimento di Liberazione in Italia>>, n.66, gennaio- marzo 1962, pag. 47. Vedi anche P. Caleffi, Si fa presto a dire fame, pag. 157

9. G. Melodia, La resistenza nel lager di Dachau, in <<Quaderni CSDI>>, n. 1, pag. 45

10. P. Levi, op. cit., pag. 29. Vedi anche P. Caleffi, Pensaci, uomo!, pag. 18

11. Una trattazione scientifica della “spersonalizzazione” degli internati si trova nello studio di M. Martini, Problemi psicologici nei campi di concentramento nazisti, in <<Quaderni CSDI>>, n.8, pag. 17