Che cosa fu la Shoah

tratto da: Mauro Bonelli, Tre saggi brevi per gli studenti, Alessandria, 2010

Una fossa comune rinvenuta dagli americani dopo la liberazione dei campi

Ebrei ai lavori forzati nei campi di sterminio

Un’immagine agghiacciante delle condizioni in cui versavano i deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti

 

NARRAZIONE

I preparativi

Con lo scoppio della guerra i nazisti decisero di “risolvere il problema ebraico”. In un primo momento questa espressione significava “liberare” completamente il territorio del Reich dalla presenza ebraica: cioè gli ebrei, che già da tempo vivevano nella Germania in condizione di separazione, isolamento e segregazione civile, andavano letteralmente scacciati, obbligati ad emigrare. Questa decisione non comportava ancora la prospettiva del genocidio: le uccisioni di ebrei furono limitate, una conseguenza di atti di violenza particolari in un contesto che negava qualsiasi valore alla vita degli ebrei, ma non erano una scelta generalizzata.

La facilità della vittoria contro la Polonia e la decisione di annettere al Reich ampi territori polacchi spinsero i nazisti a decidere di “liberare” dagli ebrei anche questi nuovi territori conquistati: gli ebrei qui residenti furono trasferiti nei territori polacchi non annessi, e denominati “Governatorato Generale” (tra la Vistola e il confine con l’U.R.S.S., con capitale Cracovia), sotto la dittatura di Hans Frank: milioni di nuovi ebrei, deportati da tutti i territori dominati ora dal Reich, dovevano aggiungersi a quelli che già vi abitavano. Tutti gli ebrei del G. G. vennero concentrati in enormi ghetti (ma anche centinaia di piccoli), delimitati da mura, con la proibizione di uscirvi, un rigido controllo poliziesco affidato ad organismi di “autoamministrazione” (i poliziotti ebraici così ben descritti da Spielberg in Shindler’s List), un duro lavoro al servizio dei tedeschi, razioni alimentari tanto scarse, affollamento ed igiene così precari da produrvi vere e proprie morti di massa.

Tuttavia già dalla fine del 1940 questa soluzione si rivelò impraticabile: troppo piccolo il territorio del G. G. , troppo densa la popolazione slava che già vi abitava, e che avrebbe dovuto essere trasferita a sua volta per far posto agli ebrei, con complicazioni impossibili a risolversi.

Allora i nazisti puntarono per alcuni mesi sul “piano Madagascar”: contando sulla connivenza della Francia sconfitta si progettò il trasferimento degli ebrei di tutta Europa nell’isola africana, con l’intenzione di predisporre tali condizioni di accoglienza (all’interno della foresta, lontano dalle coste, in un territorio privo di ogni infrastruttura civile) da provocare la morte di almeno la metà dei deportati.

Anche questo piano, cui lavorò per alcuni mesi Heichmann, si concluse in un nulla di fatto, a causa anche del dominio dei mari che la flotta inglese continuava a mantenere.

L’evoluzione stessa della guerra, però, offrì ai nazisti condizioni nuove che aprirono la via della distruzione completa degli ebrei dell’Europa.

La soluzione finale

L’aggressione della Germania all’U.R.S.S. ottenne inizialmente successi travolgenti: territori immensi furono conquistati, milioni di abitanti finirono sotto l’occupazione delle truppe della Wermacht.

Già prima dell’ordine di attacco Hitler aveva emanato ordini drastici nei riguardi della popolazione soggiogata: identificazione ed uccisione sul posto di due categorie di persone (praticamente unite, se non identificate, tra di loro dall’ideologia hitleriana): funzionari comunisti ed ebrei.

Il compito fu affidato alle truppe denominate Einsatzgruppen: circa seimila uomini che, nel volgere di sei mesi (dall’agosto ’41 al gennaio successivo) fucilarono circa settecentomila ebrei, prelevandoli nelle città e nei villaggi (spesso con la complicità delle popolazioni, soprattutto in Estonia, Lettonia, Lituania, Ucraina), trasportandoli ai bordi delle foreste, costringendoli a scavare immense fosse comuni, e fucilandoli a grandi gruppi, nei primi mesi soprattutto uomini adulti, poi uccidendo tutti, uomini e donne, compresi i neonati e gli anziani moribondi.

In questo modo si compì la prima tappa delle uccisioni di massa.

La seconda tappa doveva avvenire con modalità molto diverse, a causa del sorgere di numerosi nuovi problemi.

Innanzitutto la quantità: gli ebrei ancora in vita che si trovavano sotto il dominio dei nazisti erano in numero dieci volte maggiore a quello, pur terribile, che era stato sterminato con la modalità delle fucilazioni sul posto; inoltre la maggior parte si trovava in zone densamente popolate, in grandi città, in luoghi cioè in cui non era possibile, per non destare reazioni o complicazioni tra la popolazione circostante, procedere a massacri in massa come nelle sterminate pianure dell’Europa orientale; infine anche tra le stesse truppe tedesche destinate a procedere alle esecuzioni in massa si rilevavano consistenti manifestazioni di disequilibrio psichico, ubriachezza, diminuzione dell’efficienza.

La soluzione che i nazisti misero in atto consistette dunque nella deportazione degli ebrei da tutte le zone dell’Europa sotto il loro dominio, nella loro concentrazione in Polonia e nella costruzione di una serie di campi dotati di apparecchiature per l’uccisione e la distruzione dei cadaveri organizzate industrialmente.

A tale scopo vennero costruiti sei campi di sterminio, organizzati in modo molto diverso dalle altre centinaia di campi di concentramento, di lavoro forzato e di prigionia che i tedeschi gestivano in tutta Europa: si trattò dei campi di Chelmno (attivo dal gennaio 1942), Belzec (aprile 1942), Sobibor (maggio 1942), Treblinka (luglio 1942), Maidanek (estate 1942), ed infine Auschwitz-Birkenau, attivo dalla primavera 1942, e destinato a tutte le attività di sterminio, lavoro, deportazione.

Nel campo di Chelmno la morte veniva inflitta per avvelenamento a gruppi di ottanta persone stipate nei cassoni a tenuta stagna di camion i cui gas di scarico venivano convogliati nel cassone; negli altri campi vennero costruite camere a gas alimentate dai motori di camion o carri armati, tranne che ad Auschwitz dove venivano liberati cristalli di acido prussico (Cyclon B) che a contatto con l’aria volatilizzavano ed asfissiavano le persone; le camere a gas potevano contenere da poche decine a più di un migliaio di persone per ogni volta; l’agonia durava dai quindici ai trenta minuti, tra scene di terrore e di violenza strazianti; all’apertura delle porte i corpi accatastati cadevano fuori, le stanze si rivelavano lordate di sangue, vomito e deiezioni, i cadaveri avvinghiati ed alcuni schiacciati dalla violenza della disperazione; i corpi venivano poi bruciati in fosse all’aperto o in forni crematoi; le ceneri raccolte, insieme alla polvere ottenuta dalla macinazione delle ossa più grandi, combuste ma non sbriciolate, insaccate e gettate nei fiumi vicini ai campi.

Soprattutto a Treblinka e ad Auschwitz, i campi più efficienti, tutto il processo assumeva le caratteristiche di un orribile efficienza “produttiva”: dall’arrivo dei treni all’incenerimento dei corpi passavano solo poche ore: ad esempio il campo di Treblinka, cui furono destinati gli ebrei del ghetto di Varsavia, nel solo agosto 1942 fece scomparire 142.000 persone; Auschwitz giunse ad inghiottire, nel periodo della distruzione degli ebrei dell’Ungheria, fino a 24.000 persone al giorno. La stima delle uccisioni per i singoli campi è la seguente: Chelmno, Belzec, Sobibor, Auschwitz, Treblinka, Majdanek. Secondo lo storico Raul Hilberg il numero delle vittime suddiviso per Paesi di origine può essere stimato dalla seguente tabella:

Polonia –> fino a 3.000.000 Jugoslavia –> 60.000
URSS –> 700.00 Grecia –> 60.000
Romania –> 270.000 Austria –> 50.000
Cecoslovacchia –> 260.000 Belgio –> 24.000
Lituania –> 130.000 Italia –> 9.000
Germania –> 120.000 Estonia –> 2.000
Paesi Bassi –> 100.000 Norvegia –> meno di 1.000
Ungheria –> 80.000 Lussemburgo –> meno di 1.000
Francia –> 75.000 Danzica –> meno di 1.000
Lettonia –> 70.000

Sempre Hilberg così suddivide per anni il numero delle vittime:

1933-1940 ≤100.000
1941 1.100.000
1942 2.700.000
1943 500.000
1944 600.000
1945 ≥100.000

Come risulta evidente, il genocidio su larga scala ebbe inizio nel 1941, in concomitanza con la guerra contro l’Urss, e divenne parossistico nel 1942, soprattutto nell’estate, quando tutti i campi di sterminio erano in piena attività. Verso la fine del 1944 Himmler ordinò il rallentamento delle uccisioni, per utilizzare maggiormente, nelle difficili circostanze di una guerra che la Germania stava evidentemente perdendo, il lavoro schiavizzato degli ebrei e degli altri deportati.

PERCHÈ

Interpretazioni non corrette

Nel tentativo di fornire un’interpretazione delle cause della Shoah è più semplice cominciare con l’elencare le ipotesi che, a parere degli storici, sono certamente sbagliate:

Hitler voleva impadronirsi dei beni degli ebrei.

E’ certamente vero che i tedeschi si impadronirono dei beni degli ebrei, ma la distanza tra l’utilità e la gravità del crimine è troppo grande; era possibile ricavare beni e servizi dagli ebrei senza sterminarli, come in passato molti stati
avevano già fatto; inoltre risulta che lo sterminio fu in realtà “antieconomico”, perché impegnò e distrusse più risorse di quelle che rese disponibili ai tedeschi. Questa interpretazione risente del dogma economicistico, secondo il quale sotto ad ogni fenomeno storico o sociale ci sono sempre dei motivi di interesse: ciò è vero spesso, ma non sempre.

I tedeschi sterminarono gli ebrei perché erano tutti antisemiti fanatici e feroci.

Questa interpretazione è stata recentemente riproposta dal giovane storico ebreo americano Jonah Goldhagen: essa viene confutata su due piani: a) non è vero che tutti o quasi i tedeschi fossero antisemiti fanatici; b) quand’anche ciò fosse vero, la condizione non sarebbe sufficiente: molti altri popoli erano più antisemiti dei tedeschi (ad es. i polacchi, gli ucraini, i lettoni, i lituani, probabilmente i francesi), senza però che questo loro antisemitismo li abbia spinti al genocidio. Questa tesi, oltre che semplicistica, è anche pericolosa, perché esime dall’individuare altre circostanze che possono portare (ed in altri contesti storici hanno portato effettivamente) al genocidio, abbassando quindi l’attenzione verso il pericolo.

Il genocidio degli ebrei fu la risposta eccessiva ma non priva di fondamenti alla minaccia comunista che Hitler identificava con la minaccia ebraica.

Questa tesi è stata recentemente proposta dallo storico tedesco Nolte, ma è stata respinta da tutta la comunità storiografica, in quanto l’identificazione tra ebraismo e comunismo è assolutamente priva di fondamento. (Definire semplicemente “eccessivo” un genocidio è poi un’affermazione priva di senso sul piano storiografico, ma ignobile sul piano morale).

Una possibile interpretazione

Nel tentare di interpretare la Shoah gli storici si dividono tra coloro che ritengono che l’obiettivo dello sterminio fosse presente fin dall’inizio nella politica di Hitler, e che quindi la responsabilità spetti a lui in primo luogo (interpretazione intenzionalistica), e coloro che ritengono che il genocidio sia maturato a poco a poco, certamente per impulso di Hitler, ma anche per una serie di decisioni non legate tra di loro per necessità lineare, che si aggiunsero volta a volta, mediante il concorso di molte strutture, centri di potere, personalità del regime nazista, spesso in concorrenza tra di loro nello spingere avanti la radicalizzazione del processo (interpretazione funzionalistica). Questa seconda interpretazione, che oggi è la più comune tra gli studiosi, non nega affatto il concorso né la responsabilità dei singoli, Hitler in primo luogo, ma si sofferma soprattutto nell’analisi delle circostanze necessarie (nessuna delle quali da sola anche sufficiente) per il verificarsi dello sterminio.

Il sociologo anglo-polacco Zygmunt Bauman elenca le seguenti, che qui si elencano, ma che vale la pena di approfondire con la lettura diretta:

  • L’esistenza e la diffusione tra élite politiche consistenti di una teoria politica, che Bauman chiama “ingegneria sociale radicale”, secondo la quale è consentito, nel nome del bene definitivo dell’umanità (della razza, della classe) trasformare radicalmente la società esistente, senza arretrare di fronte ai costi umani o ai mezzi crudeli: questa teoria è servita a “giustificare” i crimini sia del totalitarismo nazista che di quello comunista.
  • L’esistenza dell’antisemitismo razzista moderno, che si fonda sull’antigiudaismo cristiano come sua condizione necessaria, ma vi si differenzia per le sue caratteristiche biologiche e non religiose, non mira alla conversione ma all’espulsione o all’eliminazione.
  • La salita al potere di un’élite che professa le convinzioni sopra descritte (il gruppo hitleriano).
  • La delega completa della popolazione (per consenso o per terrore) all’élite al potere.
  • Una situazione di emergenza, che alteri le normali regole della convivenza civile (e la guerra è la migliore di queste emergenze).
  • L’esistenza di una burocrazia statale abituata a realizzare le direttive senza discuterle, che ha sostituito una “moralità dell’efficienza” ad una “moralità dei valori”. 

La concezione razziale di Hitler

Se queste furono le condizioni necessarie per la possibilità del verificarsi della Shoah resta da spiegare quale visione del mondo muovesse Hitler ed i nazisti nell’intraprenderla.
La visione del mondo di Hitler si basa sul concetto di razza: la razza non è una caratteristica secondaria, ma quella fondante della vita individuale e sociale. In altre parole, di fronte ad un’umanità che non esiste, ma è solo un concetto ingannevole dell’illuminismo, e ad un individuo che non conta nulla, la razza assume per Hitler la caratteristica di realtà fondante di tutta la realtà umana. (“Tutti gli avvenimenti della storia mondiale non sono altro che l’espressione, nel bene e nel male, dell’istinto di autoconservazione insito in ogni razza” Hitler, Mein Kampf)

Le razze che rimangono pure, cioè non si mescolano mediante il meticciato con altre, sono razze creatrici e superiori: tale era la razza ariana, ed i tedeschi inparticolare, la cui purezza, messa in pericolo dalla modernità, doveva essere restaurata e difesa. (“L’imbastardimento del sangue e il conseguente scadimento della razza è l’unica causa dell’estinzione delle vecchie culture”, sempre Hitler).Le altre razze sono più o meno incrociate, e perciò più o meno inferiori: sotto i tedeschi stanno gli altri europei nordici, sotto i latini, ancora sotto gli slavi, verie propri esseri inferiori.

Gli ebrei non sono “inferiori” nel senso spiegato sopra: essi si sono mantenuti puri, e grazie a questa loro purezza, mantenuta senza farsi mai assimilare dalle popolazioni in mezzo a cui hanno vissuto, tentano di dominare il mondo e spodestare gli ariani, soprattutto tentando di corromperli. Gli ebrei sono dunque, secondo Hitler, una razza demoniaca, lo specchio nel male di ciò che gli ariani sono nel bene.

Gli obiettivi degli ariani devono quindi essere i seguenti: ristrutturare il mondo (l’Europa, per cominciare) ponendo sotto il proprio dominio le razze slave inferiori, cancellare (con l’espulsione o, se necessario, con la distruzione) gli ebrei, nemici metafisici. Nella metafora zoologica di Hitler, se gli slavi sono come gli animali da lavoro (e, se necessario, da macello), gli ebrei sono i batteri della sifilide, sono i pidocchi portatori del tifo: per loro non c’è spazio nemmeno come schiavi, c’è solo la sparizione.
Nessuno di queste elaborazioni è stata formulata originalmente da Hitler: tutte gli erano preesistenti, frutto di tendenze che erano nate nel Settecento e si erano sviluppate nell’Ottocento: l’originalità di Hitler consistette nell’utilizzarle come strumento di lotta politica e di aggregazione su larga scale (nelle condizioni drammatiche del mondo tedesco del dopoguerra) e poi di averle tradotte in pratica con una tragica e straordinaria coerenza.

Carnefici, vittime, spettatori

Queste categorie sono state introdotte dallo storico Raul Hilberg per definire ed analizzare i comportamenti degli attori della Shoah. Qui si elencano i gruppi che vi rientrano e si accenna brevemente ad alcune loro caratteristiche.

I Carnefici furono innanzitutto Adolf Hitler ed i suoi più stretti collaboratori: Himmler, capo delle SS, Heydrich, capo delle forze di sicurezza ed incaricato della “soluzione finale”, Goering, maresciallo del Reich, l’ideologo Goebbels, ecc. Furono poi la classe dirigente nazista nel suo insieme, furono i vecchi funzionari e burocrati di stato che in varia misura collaborarono; furono le nuove leve, alcuni entusiasti, altri freddi e calcolatori come A. Heichmann, che la filosofa Anna Harendt ha preso ad esempio per indicare la “banalità del male”; furono infine la popolazione tedesca nel suo complesso, che seppe e finse di non sapere per non rischiare o per non turbare la propria tranquillità; furono i governi collaborazionisti in Europa, come quello francese del maresciallo Pétain o quello italiano della RSI di Mussolini; furono quei collaboratori emersi anche tra le popolazioni occupate, che si misero al servizio dei nazisti per convinzione o per interesse: molti nei paesi baltici, in Ucraina, significativi anche in Francia ed in Italia.

Le caratteristiche sociali e psicologiche dei carnefici erano le più varie, ma va rifiutata la falsa opinione che si trattasse in maggioranza di psicopatici, di sadici, di fanatici: al contrario, la stragrande maggioranza di loro era costituita da persone “normali”, che prima della Shoah e spesso anche dopo (chi riuscì a scampare alla sconfitta della Germania e dei suoi alleati) si comportarono come persone normali, buoni lavoratori, padri e mariti pieni di cure per i propri cari.
Esattamente ciò, cioè la possibilità che persone “normali” compiano, in determinate circostanze, crimini orrendi, è uno degli aspetti più significativi e deprimenti della natura umana. Hilberg e Bauman elencano le condizioni che possono spiegare questi comportamenti:

  • il peso del totalitarismo e la pressione del contesto;
  • l’autorizzazione ufficiale alla violenza, richiesta anzi come un “duro ma necessario dovere” (Himmler);
  • la disumanizzazione delle vittime che, con la propaganda martellante e la riduzione in condizioni di “bruttezza” e degrado umano, sono espulse dal concetto di “prossimo”, di “persone”; la disumanizzazione delle vittime esenta psicologicamente i carnefici dal riservare alle vittime il trattamento dovuto ad ogni essere umano: questo obiettivo, e non (solo) il sadismo degli aguzzini, spiega i trattamenti disumani e degradanti;
  • la scomposizione del processo di uccisione, a cui pochi dei carnefici partecipano dal principio alla fine: cioè tanti fanno piccoli pezzi diversi del compito; ciascuno è autorizzato a pensare che non il suo tratto, ma il tratto seguente è quello criminale; (l’impiegato dell’anagrafe che consegna gli elenchi degli ebrei; il ferroviere che guida i treni; il capostazione polacco che li instrada verso i campi; la sentinella tedesca che li sorveglia; la SS che trasporta i contenitori dell’acido cianidrico; quella che li versa nelle camere a gas …);
  • l’autogiustificazione che “se non lo farò io, un altro lo farà comunque” (e intanto lo fa lui, e il progetto procede spedito);
  • l’ottundimento della coscienza e della sensibilità, l’uso di droghe, la violenza che diventa abitudine;
  • la difficoltà di fermarsi ad un certo punto: qualunque sia questo punto, bisognerà riconoscere che se si è arrivati fin lì si è già dei criminali (e allora si sceglie di negare la propria colpa e di sprofondare nel fango). 

Anche lo storico Christopher Browning nell’analisi delle vicende del battaglione 101 di polizia di riserva, composto da tedeschi “comuni” trentenni e quarantenni, ed impegnato in Polonia nelle operazioni di fucilazione, concentramento e trasferimento degli ebrei ai campi di sterminio, giunge a conclusioni analoghe.

Nel 1974 lo psicologo americano Stanley Milgram pubblicò i risultati di un suo esperimento che confermarono la possibilità, anzi, la forte probabilità che persone “normali” dietro una forte richiesta dell’Autorità accettassero di comportarsi in modo molto crudele con altri esseri umani.
Milgram richiese ad alcuni studenti (dopo aver fatto loro credere di essere inseriti in un esperimento circa l’influenza che i meccanismi di punizione possono avere sull’apprendimento) di infliggere queste ‘punizioni’, consistenti in scariche elettriche (le ‘vittime’ di queste punizioni, ovviamente, non esistevano: veniva detto che si trovavano in un’altra stanza collegate con elettrodi): ebbene, il 65% degli studenti arrivò ad infliggere scariche di centinaia di volt (che come è ben noto sono mortali!) alle ignote ‘vittime’. In questo esperimento si mettevano in luce tutti gli elementi riassunti sopra per analizzare il comportamento dei carnefici: “normalità” e mancanza di sadismo individuale; arrendevolezza di fronte all’Autorità; capacità di passare sopra alle proprie normali convinzioni morali in una situazione di forte pressione ambientale …

Le Vittime furono gli ebrei europei. I più sventurati furono gli ebrei polacchi, distrutti per intero, come anche gli ebrei degli altri paesi dove forte era l’antisemitismo e debole quindi lo schermo che la popolazione poteva stendere per proteggerli (qualora lo avesse voluto).

Hilberg analizza le diverse condizioni tra i paesi dell’Europa dell’Est, peggiori, e quelle dell’Europa dell’Ovest, in cui si aprivano maggiori spazi di salvezza; Jacques Sémelin mostra l’importanza che le strutture sociali e culturali della società circostante possono giocare per la salvezza degli ebrei: in alcuni casi esse funzionarono come un vero “scudo” difensivo (Danimarca), in altre situazioni la frammentazione del corpo sociale in gruppi sociali ed ideologici distinti rese più grave l’esposizione delle vittime (Olanda).
Quasi mai le vittime erano in condizioni di difendersi: vecchi, bambini, ma anche uomini nel pieno dell’età ma preoccupati dei propri cari, tra una resistenza impossibile e la inconsapevolezza della fine (che era tenuta segreta), accettavano ciò che era loro presentato come una deportazione dura certo, ma non necessariamente fatale. Alle vittime fu sempre fatta balenare la possibilità di una scelta tra una realtà dura ed un’altra peggiore: questa offerta di “soluzioni parziali” subito superate e vanificate (ma le vittime non potevano esserne certe in anticipo) produsse l’acquiescenza e spesso la collaborazione delle vittime alla propria distruzione.

Spettatori furono la maggior parte degli europei sotto il dominio nazista, per molti versi le potenze alleate ed organizzazioni internazionali (come la Croce Rossa, ad esempio).

La condizione di spettatori ha come confini ai due estremi la posizione dei soccorritori e quella dei profittatori e complici. In quei paesi dove il baricentro si posizionò vicino alla prima condizione, la sorte degli ebrei fu meno terribile: gli ebrei danesi, quelli italiani ed altri ebbero una buona probabilità di salvezza, che non vi fu per gli ebrei dell’Europa orientale (ma anche per gli ebrei olandesi, ed in buona parte per quelli francesi). Sulle responsabilità degli spettatori sarebbe interessante aprire un capitolo di filosofia morale.

Bibliografia

Su carta

La bibliografia è immensa. Quella che qui viene presentata ha come destinatari insegnanti e studenti; sono omesse le opere di sintesi didascalica ma vengono elencati alcuni capisaldi della storiografia.

Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Torino, Einaudi

Raul Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori, Milano, Mondadori

Zygmunt Bauman, Modernità e olocausto, Bologna, Il Mulino

Jacques Sémelin, Senz’armi di fronte a Hitler, Torino, Sonda

Cristopher Browning, Verso il genocidio, Milano, Il Saggiatore, 1999