Cinquant’anni fa, l’8 settembre

Atti del convegno di studio tenuto a Viguzzolo l’8 settembre 1993, organizzato dal comune di Viguzzolo, ANPI sezione di Viguzzolo e dall’ISRAL

L’8 settembre a Tortona e nel tortonese

di Giorgio Gatti

Ho sempre avuto diffidenza per gli incontri storici di questo tipo, perché ci vedo sempre sotto il pericolo dell’oleografia e della ricorrenza.

Sono invece contentissimo che il comune di Viguzzolo abbia insistito, si sia testardamente adoperato per fare questo incontro perché le cose che ha detto il professore [Dellavalle ] prima, valgono già la fatica di essere qui e di essere stati ad ascoltare. Credo che siano state cose molto serie ed elementi di un dibattito che dovremmo sforzarci di approfondire.

La mia relazione sarà invece meno interessante, avrà l’unico pregio di essere più corta.

Seguire per Tortona il passaggio e il mutamento dello spirito pubblico dall’inizio della guerra fino al 1943 è un lavoro molto difficile. Non ci sono sintomi precisi che possiamo individuare in questi anni, soprattutto nel periodo ’42-43, gli anni dei crollo dell’unità fascista del paese. Sicuramente, rispetto a questo tipo di consenso, oppure di appoggio, i colpi decisivi sono portati dalla disfatta della guerra d’Africa, con il continuo stillicidio di giovani concittadini che cadono in Tripolitania e in Tunisia, in Africa Orientale, in Albania e, prima ancora nella campagna di Francia, i feriti che tornano e, molto importante, il numero dei prigionieri che veniva notificato settimanalmente o sui giornali, che riportavano le lettere, gli indirizzi dei vari campi… Per il Tortonese si trattava di un numero molto alto, molto di più di quello dei caduti e dei feriti.

Il colpo definitivo, probabilmente, lo portano i ricordi di chi fa la campagna di Russia, con la ritirata, l’andamento di quella guerra… Questi racconti incrinano definitivamente sia la fiducia nell’esercito e nello stato, sia anche la fiducia nell’alleato germanico, una fiducia fino ad allora sicuramente molto forte e diffusa a livello popolare, nella capacità militare dei tedeschi.

I racconti della Russia segnano il distacco e l’inizio di una ostilità sempre più dichiarata nei confronti dell’esercito in quel momento alleato. I sintomi del cambiamento per Tortona sono più ricuperabili nelle testimonianze di chi era al fronte, piuttosto che in quelle di chi era rimasto in zona.

C’è poi una ricostruzione molto bella, cui rinvio perché non riesco neanche a riassumerla, che è quella di Bruno Cartosio (1), quando parla della sua famiglia, e soprattutto della rete di rapporti che si crea attorno alla famiglia, nel 1940-45. Quello scritto può essere un esempio di ciò che diceva il professore prima sull’importanza dei rapporti parentali, familiari, di quartiere e di amicizia, al di là della politica e degli schieramenti, in una città come Tortona, e ovunque, nei momenti di durezza della guerra.

Invece, abbiamo parecchie testimonianze di chi era al fronte o di chi era accasermato da qualche parte con la divisa del regio esercito.

C’è la tradizionale lettera, di un viguzzolese in questo caso, che dall’Africa scrive: ‘Qui andiamo avanti come vangando!’, quando è notorio che vangando si va… indietro. Oppure chi scopre la disorganizzazione, tra stupida e criminale, del regio esercito, quando viene trasferito, e mi sembra che sia qui presente in sala, viene trasferito da caserme del nord Italia a Napoli, con l’equipaggiamento invernale, e racconta: “A Napoli, in maggio, vestiti di panno: un cad da Sciupà!” (2).

Lo sconcerto diventa invece scandaloso quando si scopre che, in Albania, alcuni reparti italiani si addentrano nelle montagne, in mano ai Greci, senza nessun tipo di conoscenza del territorio e senza che gli ufficiali delegati al comando e alla responsabilità di questi soldati si rendano conto di quello che succede. Di fronte, appunto, a testimoni locali che cercano in qualche modo di avvertirli, senza alcun risultato.

C’è chi, per esempio, già alla metà del ’43, è recluta vicino a Milano, e viene insultato pesantemente, in periferia, dagli abitanti dei posto: “Ci sputavano addosso e ci chiamavano “figli di Mussolini”, ma noi avevamo le stellette, mica il fascio”. Non erano infatti reparti con le mostrine del fascio littorio, erano reparti dell’esercito, però venivano considerati come fascisti, malgrado loro, personalmente, non avessero poi tanto da spartire con l’ideologia fascista.

La città, invece, ha una vita del tutto particolare, ed è un discorso complesso, che tocca aspetti di tipo economico: Tortona è perfettamente inserita nell’economia di guerra, ci sono gruppi industriali che fondano fabbriche nel 1940, si affiancano a produzioni di tipo bellico. Ci sono fabbriche direttamente interessate, ad esempio all’aeronautica, e soprattutto la funzione storica di Tortona come centro dei trasporti e degli autotrasportatori, con centri di assistenza e di deposito, diventa in questa fase importante. Sarà, come vedremo più avanti, un centro fondamentale di transito, sia per colonne di trasporto, che per quelle corazzate, come la “Goering”, che si fermarono nei nostri dintorni parecchie volte.

Nella primavera del ’43 torna dalla Russia il 38º reggimento, e si accaserma alla “Passalacqua” di Tortona e presso la caserma dell’aviazione che si trovava, come tutti i presenti sanno, e, anzi magari sanno molte più cose di quante ne sappia io, si trovava nell’attuale caserma dei carabinieri.

In quella caserma c’era il “Comando caccia” della I squadra aerea, con un generale, Biseo, e poi Ranieri Cupini.

Quando arriva il 25 luglio, tutti i testimoni ricordano una festa per le strade, una festa con più aspetti alllegri e pochi aspetti di scontro. Volano degli schiaffi, naturalmente rivolti a quei fascisti che hanno la furbizia di farsi vedere in giro, e che sicuramente non erano particolarmente malvisti – erano i più stupidi, probabilmente – vengono scalpellati i fasci littori dove si può: alla stazione, alla caserma, al municipio, si toglie qualche lapide fascista, si scrive molto “Viva il re”, per esempio, e dal luglio al settembre si ha l’impressione che la zona, come probabilmente tutta l’Italia, aspetti che la classe dirigente rinnovata risolva la questione, come spetta alle classi dirigenti.

Nel frattempo, tutte le testimonianze ricordano che aumenta, nell’estate, la preoccupazione e anche l’ostilità dichiarata nei confronti dei tedeschi. Questi vengono visti proprio come il problema: i tedeschi qui stanziati, che aumentano sempre dì più, sono il problema che impedisce la pace, sostanzialmente, l’uscita dalla guerra.

Nello stesso periodo si radunano, iniziano a contattarsi più frequentemente gli antifascisti, i vecchi antifascisti, che erano sicuramente pochissimi. I nomi li conoscete tutti: Mario Silla, Cartosio, l’avvocato Lugano, l’ingegner Fiamberti, la piccola rete comunista che era sopravvissuta in qualche modo sia al fascismo che alla dichiarazione della guerra, insomma, quelli che non erano andati a soldato. Incominciano dunque ad incontrarsi con quei giovani che tornano per qualche motivo dal fronte e che hanno maturato, soprattutto in Russia, l’avversione verso il regime e verso la guerra. Contemporaneamente, c’è l’aspetto dell’antifascismo di tipo cattolico, che è abbastanza presente a Tortona: la curia, in quel periodo, organizza degli incontri aperti agli iscritti alla Fuci, gli universitari cattolici, all’Azione cattolica e ad alcuni esponenti del futuro partito democristiano, come Malagugini.

Nello stesso periodo, avviene questo fatto abbastanza noto, credo. Il giornale cattolico diocesano, che copre una zona che va da Novi ligure fino a Stradella e aveva alla guida un prete relativamente giovane, don Pollarolo, il quale aveva avuto la bella idea di fare, nel maggio del ’40, un articolo che conteneva l’affermazione: “Fanciulli di tutto il mondo unitevi e disarmate i vostri padri” (3). Questa cosa non era piaciuta per niente ai fascisti, e non era il momento più giusto per farla… Quando arriva il 25 luglio, il giornale fa un articolo che si intitola “Giù la maschera”, in cui se la prende tranquillamente con i fascisti, che non gliela perdoneranno mai, perché durante la repubblica di Salò don Pollarolo fu perseguitato, e il giornate fu costretto a chiudere.

Con questo tipo di organizzazione assolutamente sommersa, molto prudente, dell’antifascismo, si arriva ai giorni del settembre, e secondo quel che scrive il Pansa, che riporta due interviste a Francesco Rolandi e a Mario Silla (4), c’è il giorno 7, una delegazione di questo futuro Comitato di liberazione che va dal generale comandante il presidio militare, e gli chiede di organizzare la difesa popolare, insieme naturalmente all’esercito, della città contro i tedeschi, che erano nei dintorni. La risposta che è riferita da questa testimonianza è quella di prammatica, cioè che l’esercito avrebbe stroncato il disordine da qualsiasi parte provenisse. La proposta è respinta, e gli antifascisti se ne tornano a casa preoccupati.

Il giorno dell’8, la notizia dell’armistizio è salutata non da grossi festeggiamenti, perché la preoccupazione prevale in tutti, c’è questo fenomeno dei falò accesi in campagna, è la notte dei falò accesi nelle valli, che in qualche modo segnalano il cambio, la fine comunque di un periodo e l’inizio di un altro, e, nella notte tra l’8 e il 9, si verificano i due fatti d’arme che riguardano questa zona, e che sono comunque tra i più significativi tra quelli avvenuti nella zona che va da Alessandria a Piacenza.

Su questi fatti d’arme, noi abbiamo due tipi di fonti: una sono i rapporti tedeschi, che sono stati pubblicati dal professor Mantelli sul numero 8 del quaderno dell’istituto storico di Alessandria (5), l’altra è costituita dalle ricostruzioni precedenti, che sono in genere più confuse, essendo basate solo su interviste a testimoni. Vale la pena di leggere i rapporti tedeschi, intanto perché sono brevi, e poi sono abbastanza interessanti. Il comando dell’872 corpo d’armata tedesco segnala, alle ore 9.40 del 9 settembre: “Conclusa l’azione a Tortona. L’aviazione italiana si è difesa. Un generale dell’aviazione e 2.000 uomini sono stati fatti prigionieri. Tutti i ponti sul Po, i ponti a 4 Km ad ovest di Piacenza, i ponti presso Voghera e a est di Alessandria, così come al bivio di Bobbio, sono nelle nostre mani.”

Ore 13.25 dello stesso giorno, comunicazione radio della 94° divisione: “Il capo dei fascisti di Tortona ha offerto la sua collaborazione”. Qui, non sappiamo se le altre città avessero dimenticato di comunicarlo, comunque questa è l’unica comunicazione relativa a capi di fascisti che offrono la collaborazione ai tedeschi, cioè dalle altre parti non viene segnalato questo fatto. Può essere un caso, se non è un caso, è una grana perché significa che proprio…

Ore 16.08, notizia radio dalla 94° divisione: “A Tortona 2.945 prigionieri”‘ In un rapporto successivo, del 12 settembre, la 94° divisione di fanteria aggiunge alcuni particolari. La divisione doveva disarmare un vasto territorio, da Alessandria a Piacenza, il settore ‘d’ comprendeva Tortona e dintorni, e prevedeva, per quanto riguarda le truppe, il reparto controcarro dei 194° reggimento di artiglieria, esclusi alcuni plotoni, rinforzato da una compagnia ausiliaria dipendente dallo stesso reggimento, comandante il tenente colonnello Keppler, comandante appunto questo reparto controcarro. I compiti: disarmo delle caserme di Tortona, occupazione dei centri di informazione, nonché delle aziende principali. Mantelli, in quell’articolo, ha calcolato un 500 uomini di effettivi. L’azione della prima mattina del 9 settembre è così descritta: “L’azione dei reparti controcarro del 194º reggimento, opportunamente rinforzato, si svolse secondo i piani. Prima di tutto furono occupati il ponte che si trova all’uscita ovest della città, e le altre vie d’accesso. Mentre le caserme furono prese senza spargimento di sangue – cioè la fanteria, il 38° – grazie alla sorpresa, si arrivò, nell’occupazione della sede dei comando dell’aviazione, ad un breve conflitto a fuoco. La resistenza italiana fu però spezzata in fretta. Alle 9 Tortona era completamente nelle nostre mani. Furono fatti prigionieri 5 ufficiali, fra cui il generale dell’aviazione italiana Ranieri Cupini e 1.519 tra sottufficiali e truppa. Proprie perdite: 2 morti e 3 feriti”.

Sulle perdite italiane e sulla ricostruzione puntuale dello scontro, ci sono varie versioni, che però non si incrociano. L’ora si può fissare attorno alle 4 di notte. Il Cimelli e lo Zangrandi parlano di 5 vittime (6), ma includono probabilmente anche il carabiniere che è morto a Viguzzolo più o meno alla stessa ora. Quindi si tratterebbe di 4 avieri, o comunque soldati di guardia alla caserma dell’aviazione, e un carabiniere, probabilmente quello che è caduto ucciso a Viguzzolo. Le testimonianze sul mattino sono, per esempio, quelle di Giulio Santagostino, ‘Zampa’, che ci ricorda: ‘[…] mentre andavo a lavorare, ho visto i carri armati, e poi vedo due morti: uno era un militare tedesco. Poi dentro la stazione c’era piazzata una mitragliatrice e han detto che dentro le caserme sono entrati i tedeschi e i militari son tutti prigionieri… Allora son cominciati a passare delle formazioni tedesche, dei carri armati ‘”Panzer-Faust” e dei ‘Tigre’ che hanno circondato Tortona… A Tortona c’è stato un periodo che di carri armata tedeschi se non ce n’erano duecento non ce n’era nemmeno uno: era piena di carri armati Tortona” (7).

L’altro fatto di sangue di quella notte si svolge a Viguzzolo. C’era un reparto di tedeschi accampato nei pressi di Viguzzolo, probabilmente un reparto della “Flack” (?), dell’antiaerea, con dei camion, con dei servizi… Effettuano il disarmo della stazione dei carabinieri e durante questo disarmo un giovane militare dell’arma, Domenico Salvatico, viene ucciso(8). La testimonianza di Aldo Ponta è molto lunga, la riassumo: il carabiniere in questione abitava a cento metri dalla caserma ed era sposato da poco. Sentendo le urla della moglie del comandante, ha ritenuto di dover correre in aiuto; è entrato nel cortile della caserma, ha preso la scala che andava al piano di sopra, e a quel punto si sono sentiti due o tre colpi di pistola, e il carabiniere è rimasto ucciso. Al mattino è arrivata la moglie del carabiniere e si è visto un interprete tedesco che cercava di scusarsi, alludendo ad una fatalità. Anche qui la ricostruzione non ci aiuta molto ad inquadrare il fatto, perché in questo modo sembra quasi che si sia trattato di un incidente, determinato dal nervosismo magari di un ufficiale tedesco, mentre in un’altra ricostruzione precedente a quella che abbiamo rilevato noi (9), si parla di un colpo di pistola, probabilmente del carabiniere stesso, e di una raffica di mitra, o comunque di un’arma automatica, dei tedeschi, che lo uccide. Ed è evidentemente assai diverso il caso se il carabiniere si presenta con la pistola in mano ed esplode un colpo, oppure se viene ucciso per le scale perché è uno che corre su in un momento di tensione. Comunque, resta il fatto che il carabiniere è stato ucciso.

Al mattino del 9, gran parte dei soldati accasermati nella zona sono prigionieri ed attendono di essere tradotti in Germania, mentre le strade della città e dei dintorni si riempiono di quei soldati che sono riusciti a scappare e rimediano dappertutto assistenza, vestiti, aiuti… Cominciano delle odissee terribili per il ritorno a casa oppure per andare a schierarsi in seguito tra le fila dei partigiani. Sono giorni di confusione estremamente forte, anche di tipo morale e materiale, ci sono dei saccheggi generalizzati del materiale abbandonato dall’esercito nelle caserme o addirittura in giro. La caserma Passalacqua viene saccheggiata da torme di concittadini, vengono saccheggiati anche un deposito di automezzi, da cui vengono sottratti dei camion completi e dei pezzi di ricambio. Gli antifascisti, in questo sconcerto e disordine generale, riescono a mettere le mani su un certo quantitativo di armi, tra cui forse alcune armi automatiche, che erano state abbandonate sul castello, e le nascondono.

Per chi non ha vissuto quei momenti, è interessante ricostruire la difficoltà della scelta di quei giorni, capire cioè quale tipo di sentimento, di sensazione poteva essere diffuso. Ci sono le parole di “Cudega”, Agostino Arona, che racconta alcune cose interessanti: “C’era chi diceva che dovevamo fare dei sabotaggi, chi diceva che dovevamo fare della propaganda, nessuno diceva proprio della lotta aperta, armata. Ad un certo punto, il partito di Genova, ché lì erano più organizzati, era in ottobre, manda giù Ardesia, l’ingegner Agostini del Comitato regionale ligure, che ha parlato, e io l’ho guardato come se fosse matto, o uno che avesse una gran fantasia lui parlava di zone libere e di combattimenti, creare delle repubbliche e comuni occupati da noi, di mettere i sindaci e le giunte… L’abbiamo guardato, però era molto efficace, e noi abbiamo recepito queste direttive. Mario Silla e Cartosio immediatamente sono entrati in quest’ordine di idee”(10). Contemporaneamente, da una testimonianza di Pietro Borgarelli, tratta da “I guerriglieri dell’Arzani”, che racconta alcuni tratti della vita della città che possono essere citati perché descrivono meglio la confusione, e comunque la vita di quelli che non avevano un aggancio politico così forte e nessuna pressione per operare una scelta. “Si viveva una strana vita, molti non abitavano più a casa propria, soprattutto quando si riaprì la casa del fascio, e nella stessa si stabilì con le sue bizzarre divise il fascismo repubblicano, e le denuncie e le delazioni furono all’ordine del giorno, secondo un estro patologico che sfuggiva ad ogni logica prevedibile. Il turbine degli spostamenti e delle fughe divenne rapido e molteplice. Per una specie di elementare regola di tranquillità e di sicurezza che divenne col passare del tempo un’abitudine e addirittura una specie di moda, tutti coloro che sentivano di poter essere minacciati, non dormivano più a casa. Le abitudini si cambiavano. Un indirizzo non veniva mai comunicato, non si sapeva con sicurezza se uno era in città oppure se dalla stessa si era allontanato, se fosse partito o se semplicemente si fosse nascosto, e nessuno lo domandava per non creare imbarazzi e per non essere mesi in difficoltà. Cera chi, pur in buona salute, passava lunghi periodi di tempo in ospedale per curarsi un’appendicite dimenticata o non esistente, c’era chi viveva in una stanza murata collegata con il mondo familiare da un piccolo buco. Fiorivano le carte d’identità false per tutti gli usi e tutti i consumi, false carte di lavoro, falsi documenti militari”.

Si tratta sicuramente di una situazione generalizzata, che però ben descrive una situazione diffusa di illegalità e di incertezza, di rottura, come diceva il professore prima, dei punti di riferimento, per cui uno deve cambiare casa, deve darsi ad una illegalità sempre più ampia, sempre più diffusa. Probabilmente sono le basi materiali per delle scelte che diventano di massa, diventano generali.


Il dibattito

Roberto Botta

Questa ricostruzione su quanto succede a Tortona e nel Tortonese attorno a quei giorni, credo ci abbia restituito l’idea del caos, proprio attraverso quelle testimonianze, magari esagerate, che abbiamo sentito. Vedevo che qualcuno scuoteva la testa, ma io sono convinto che esse diano la sensazione della necessità, per i testimoni, anche di esagerare per farsi capire. Qualcuno che di fonti orali se ne intende, come Sandro Portelli, ha detto una frase molto bella a questo proposito: “Non tutto quello che si racconta è successo, ma tutto è stato effettivamente raccontato”.

Quindi, al di là della veridicità del racconto, è importante capire le necessità, le motivazioni del racconto, e mi sembra che in tutte queste testimonianze, ci sia proprio l’urgenza di dare l’idea dell’eccezionalità ed unicità di quei momenti.

Quel che accade a Tortona, ricalca quanto accade anche nelle grandi città. Gli antifascisti che vanno a chiedere al comandante dell’esercito italiano di difendere la città, li ritroviamo anche a Torino, ad esempio, e in altri posti.

Credo dunque che le fonti orali, se tarate come Giorgio Gatti ha saputo fare, ci possono servire molto, soprattutto se riescono ad essere integrate con le pochissime fonti che abbiamo a disposizione su questo periodo, come le fonti tedesche.

Ora vorrei dare il via al dibattito, nel quale vorremmo cercare di mettere in relazione le testimonianze con le riflessioni di chi si occupa professionalmente di queste cose.

Qui c’è un elenco di primi interventi, che potremmo definire gli interventi “obbligati” ma naturalmente invito tutti i presenti a portare il loro contributo. Forse, per spezzare un po’ il ritmo, inviterei alcuni dei protagonisti di quegli anni qui presenti ad intervenire.

Domenico Marchesotti

Io credo che non vi sia dubbio, come diceva il professor Dellavalle, che l’8 settembre fu per l’Italia un passaggio drammatico e rilevante, per tutte le ragioni che il professore ha detto, ma, a mio modo di vedere, anche perché proprio dal fallimento di una classe dirigente, che per la verità non aveva responsabilità per quanto riguarda la guerra, ma ne aveva anche altre, dall’unità d’Italia a venire avanti. Proprio dal fallimento di questa classe dirigente la politica passa in mano alla gente, ed è evidente e naturale che quando la politica passa in mano alla gente che viene da una situazione come quella del fascismo, si crei confusione. Per cui credo che non dobbiamo meravigliarci più di tanto se dagli studi e dagli approfondimenti rileviamo che c’era, attorno all’8 settembre, della confusione. Secondo me, poi, non è vero quello che dice De Felice, che la maggioranza, la stragrande maggioranza del popolo italiano non ha appoggiato la Resistenza, o comunque la lotta contro i tedeschi e la repubblica di Salò, perché, vedete, dalla confusione cosa ne esce, che una parte ha scelto il passato, ha scelto la repubblica di Salò, e si tratta di una minoranza, senza appoggio. Un’altra minoranza ha scelto la via della Resistenza, e c’è stata poi una parte che ha continuato ad essere sbandata, ma non ha appoggiato la repubblica di Salò. E non solo: per i partigiani questi sbandati erano molte volte, dei punti riferimento, degli elementi di collegamento, tanto che, ad un certo punto – come succede sempre, nelle lotte politiche e militari emergono anche gli estremisti – era apparso un orientamento che diceva: “O con noi, o contro di no”.

Ma questo atteggiamento è tramontato nel giro di qualche settimana, perché finiva con l’isolare tutto il movimento partigiano [ …]. Non c’è da meravigliarsi che sia avvenuto così: credo che nella storia siano sempre state delle minoranze a muoversi in una certa direzione.

Detto questo, vorrei affrontare quello che viene dopo, con l’offrire quelle che potranno sembrare delle provocazioni – e forse lo sono, e di questo mi scuso – ma ritengo che su queste cose bisognerà riflettere, se vogliamo capire il rapporto che c’è tra il 1943 e il 1993.

Gli alleati, dopo l’8 settembre – e l’armistizio era secondo me un atto dovuto: avevamo perso la guerra, avevamo perso tutto, non facciamoci illusioni… – prima di sostenere il movimento partigiano, hanno atteso fino alla fine del ’44, inizio del ’45, dopo che in una riunione a Roma, era stato firmato un accordo con i partigiani del nord che, a liberazione avvenuta, le armi fossero consegnate e tutti “tornassero a casa”.

Questa è la verità: i nostri comandanti hanno firmato questo patto, e non solo, lo hanno anche mantenuto, compresi tutti i partiti che facevano parte del Cln. Questa fu una scelta di carattere politico, che non era di poco conto già da allora, e ha avuto da allora in poi tutto uno sviluppo. La politica passava in mano alla gente, attraverso i partiti di massa, e questo ha portato coloro che ci hanno messo un anno e mezzo a sostenere il movimento partigiano – per ragioni politiche: gli inglesi, in particolare, avrebbero voluto che le cose andassero in modo diverso, che la monarchia si salvasse, ad esempio – li ha portati dunque a scegliere un partito che difendesse i loro interessi, il partito della Democrazia cristiana, verso il 1945-46. E’ vero quello che diceva il professore, cioè che i grandi partiti di massa hanno garantito la democrazia, ma garantito la democrazia perché in Italia c’è sempre stato un movimento operaio e un partito comunista e le sinistre nel loro complesso, che l’hanno garantita fino in fondo. Da altre parti non è avvenuto così. Invece, la Democrazia cristiana, che poteva godere del sostegno degli inglesi e degli americani a seguito di quel patto, subiva il condizionamento di un movimento di sinistra così forte ed articolato.

E allora, nel 1947 e iniziata la “compravendita” dei partiti, non solo dopo il ’68. 1947, quando Saragat e i socialdemocratici sono stati comprati a peso d’oro per fare il governo che dovevano fare, per non trattare con la sinistra. E poi, nel 1960, dopo Tambroni, hanno impedito anche a Nenni di fare ciò che si prefiggeva [ … ].

La corruzione viene fuori dal fatto che in Italia, per sostenere la parte negativa della repubblica italiana, non solo la mafia l’hanno portata in Sicilia, ma poi, è andata avanti, questa storia.. E se è vero, come dice l’ex presidente Cossiga, che “Gladio” l’avevamo anche nel movimento partigiano, vuole dire che questa roba viene da lontano. E la massoneria non c’era? [ …]. Negli anni se ne è parlato molto, ma non sono mai riuscito a sentire niente di risolutivo a tal proposito, cioè sul rapporto tra una Costituzione che si richiama alla Resistenza e una politica che alla Resistenza non si ispira assolutamente. Questa contraddizione, com’è che ce la spieghiamo? Come è potuto avvenire tutto questo? Credo che si possa e si debba approfondire tutti questi temi per capire meglio perché oggi ci troviamo in queste condizioni.

Vi chiedo scusa per quest’altra considerazione politica: corruzione, tangentopoli, Craxi, adesso, tutti addosso a Craxi… Eppure, questo Craxi, così forte, così capace, quando qualcun’altro in Italia ha sostenuto una certa linea, di rapporti tra cattolici e sinistre, Craxi ha fatto una cosa diversa. Ha detto: “Ci penso io! Quanto mi date?”. E quelli, probabilmente, gli hanno detto: “Senti, ti facciamo Presidente del Consiglio, tu fai saltare la ‘scala mobile’, e governi. Poi, per il compenso, si vedrà …”.

Ma Craxi, quando ha fatto questo “accordo” sapeva benissimo con chi parlava, sapeva che avevano un’esperienza di anni, dietro, dal 1947, appunto. I responsabili, quindi, ci sono, è chiaro, basta approfondire le cose… Basterebbe ricordare che tutti i segretari socialdemocratici sono finiti in galera…[…]. Bisognerebbe smascherare fino in fondo quello che gli storici chiamano “costituzione materiale”, e questa dovrebbe saltare definitivamente [….].

Il fascismo in Italia si è affermato, non solo perché il re lo ha voluto, la borghesia lo ha voluto, eccetera, ma perché la sinistra cattolica e la sinistra storica non si sono messe d’accordo per evitare che ciò accadesse. Credo che il problema oggi sia ancora questo, perché nel momento in cui nel movimento partigiano l’accordo con i cattolici e con quella parte di liberali che noi avevamo all’interno, è diventata reale e concreta, il movimento ha avuto un grande sviluppo.

Credo che abbia ragione Rosy Bindi quando dice che è necessario giungere ad un accordo tra cattolici e sinistre italiane, il Pds, ed ha ragione anche Occhetto, quando dice che un accordo si raggiunge “costruendo”, e non “contro”. Credo che uno sforzo in questa direzione la sinistra italiana – cattolici, Pds, Rifondazione comunista, Alleanza democratica, eccetera – debba farlo per giungere ad una rottura.

Uno storico inglese, che fece parte della delegazione della 6° zona e in seguito divenne uno storico, ci ha detto in un occasione presso il municipio di Tortona, all’epoca della caduta del muro di Berlino: “In una situazione come quella attuale, occorre che l’Europa ritorni agli accordi dei 1943-45: la politica nelle mani della gente”.

Brunello Mantelli

Le cose che dirò saranno certamente più tecniche e meno appassionanti per il pubblico presente in sala. Cercherò di contenere la noia, essendo il più breve ed essenziale possibile.

Come diceva Botta, ho lavorato, negli ultimi anni, essenzialmente su alcuni documenti tedeschi, trattanti i rapporti con l’Italia tra gli anni ’30 e gli anni della seconda guerra mondiale.

Quale è la rilevanza di questa documentazione? Occorre tenere presente che l’8 settembre rappresenta la fine di un ciclo: la crisi di uno Stato, di un gruppo dirigente, di un assetto politico che, almeno dal 1936, e cioè dell’accordo dell’asse Roma-Berlino, aveva consentito che la storia dell’Italia fascista si intrecciasse con la storia della Germania nazista, non solo dal punto di vista politico e militare, ma anche da quello economico.

Ecco perché, per capire la storia italiana dal ’36 al ’45, occorre consultare anche le fonti tedesche, e non solo quelle italiane. Questa pare una banalità, ma di fatto non lo è stata. Per esempio, il professor De Felice nella sua monumentale biografia di Mussolini si è basato esclusivamente su fonti italiane, anche per la redazione dell’ultimo volume edito, riguardante l’Italia in guerra nel ’40-’43. Non utilizza mai fonti tedesche, solo tre cose tradotte in italiano su “Storia illustrata”, quando c’è stata, più che una semplice alleanza, una conduzione comune della guerra.

Cominciamo brevemente a vedere quali sono le fonti, e cosa ci dicono.

Sono fonti di tipo diverso, diplomatiche, di diplomatici tedeschi in Italia che mandano informazioni in patria. Sono fonti militari, particolarmente ricche dopo l’entrata in guerra dell’Italia, e ricchissime per il periodo del quale stiamo parlando oggi. Sono fonti, poi, di vari ministeri civili, che hanno i loro delegati in Italia, e che trattano di accordi economici, di commesse tedesche nell’industria italiana e viceversa, sono fonti di vario genere. Si tratta anche di relazioni di imprenditori che vengono in Italia, cui il loro ministero degli esteri chiede di scrivere cosa vedono, come funziona l’economia italiana… Sono molto interessanti per capire anche un punto di vista esterno.

Si trovano in alcuni archivi in Germania Federale, non vi racconto la storia degli archivi tedeschi dopo la guerra, archivi apertissimi, più aperti dei nostri, il limite è di trent’anni, mentre da noi è di cinquanta, quindi il ’44-’45 lo vediamo con autorizzazione, là invece non c’è problema.

Sono poi documenti pubblicati, documenti diplomatici disponibili, basta andare a Friburgo, che è appena oltre Basilea, per vedere le carte militari, o poco più su per vedere le carte civili, oppure prendere i volumi dei documenti pubblicati. Sono documenti accessibili, ovviamente se si conosce la lingua.

Ci dicono parecchie cose, alcune anche “gradevoli” per l’Italia: ad esempio, nel tremendo inverno ’42-’43, quel poco pane che gli italiani mangiavano, era fatto in parte con grano ucraino, grano rubato agli ucraini, che l’Italia, avendo bisogno di cereali, chiede alla Germania, e avrebbe poi ricambiato con riso, di cui c’era stata una certa sovrapproduzione, nell’anno successivo.

Gli italiani, quindi, sono sopravvissuti anche grazie al fatto che migliaia di ucraini sono morti di fame per le rapine. E’ un altro crimine di guerra dei gruppo dirigente italiano del tempo.

Poi ci raccontano altre cose circa la cialtroneria del regime fascista, ad esempio che quando si trattava di armare il corpo di spedizione in Russia, mancavano cappotti, allora le autorità italiane cercano di convincere il governo rumeno alleato a darci tessuti per fare cappotti per i nostri alpini, e chiedono alla Germania di pagare lei il conto. I tedeschi accettano: “Tanto – dicono – se non gli diamo i cappotti, ‘sti disgraziati non ci mandano nessuno”, proprio così dicono.

Un altro degli aspetti della “cialtroneria” della guerra combattuta dagli italiani, vista con gli occhi dell’alleato, che a volte riesce ad essere più impietoso del nemico.

Veniamo ora al periodo che ci riguarda. Le carte in questione, al riguardo dei 20 mesi della Resistenza, raccontano alcune cose, come già ha evidenziato Gatti. Ci raccontano, ad esempio, come è avvenuto il disarmo delle truppe italiane: nei Balcani, nella Francia meridionale, nel nord e nel centro Italia… Ci dicono anche altre cose, scusate se ve ne mostro una: per esempio, questa è una carta, e ci mostra lo schieramento partigiano tra Genova, Piacenza e Alessandria, in questo triangolo che si spinge fino ad Asti e Casale, al 10/1/45. Di queste carte ce ne sono a decine: indicano la posizione delle bande, ci dicono quali fossero le informazioni dei nemico circa la consistenza delle formazioni partigiane e sulle loro azioni, su chi le comandava… E’ un documento importante, che va incrociato con le fonti partigiane.

Altri esempi. Abbiamo le relazione dei rastrellamento anti- partigiano nella zona della Val Borbera, Val Grue, fino a Torriglia, questa zona qui, praticamente. E’ l’operazione chiamata in codice “A” “Aquisgrana”, scatta il 2/12/44, attenti alla data -gli astigiani presenti avranno già rizzato le antenne – è la medesima data dei rastrellamento contro la zona libera di Nizza. Si tratta dunque di un pezzo di azione anti-partigiana su vasta scala: viene descritto tutto, chi la fa, quali unità combattenti, su quali direttrici, con quale armamento, con quali risultati, vale a dire morti, prigionieri e rastrellati, quanti vengono mandati in Germania, o fucilati, oppure ancora utilizzati come manodopera coatta… Ecco come possono essere utilizzate queste carte.

Torniamo al periodo 25 luglio 8 settembre. Sul 25 luglio, ad esempio, i documenti tedeschi parlano molto chiaro: emerge tutto l’atteggiamento triplo-quadruplice giochista di Badoglio e del re, con tutta evidenza. Immaginate, dunque, il re, unico punto di riferimento per tutti gli italiani in quel periodo, come diceva Dellavalle, che, il 26 o 27 luglio, convoca l’ambasciatore tedesco e gli dice: “Guardi ambasciatore, io ho sempre messo in guardia il duce dai suoi nemici all’interno dei partito”, e a questo punto mostra l’originale dell’ordine del giorno Grandi, con le firme autografe. “Ecco – prosegue – i traditori sono questi”. In particolare, gli indica Grandi e Ciano. E’ il re in persona, quindi, che denuncia quei dirigenti che hanno firmato l’ordine dei giorno che ha esautorato Mussolini.

Niente male come dignità per un sovrano! Non che mi siano simpatici i sovrani, però c’è una differenza enorme tra questo e, per esempio, re Giorgio d’Inghilterra, che rimane a Londra durante la battaglia e sotto i bombardamenti, e fa rimanere la famiglia, bambini compresi, dicendo: “Se rimangono i bambini dei miei sudditi londinesi, rimangono anche i miei”. Il nostro era evidentemente di un’altra pasta, e con ciò si è giocato tutto.

Sull’8 settembre. Non torno sui particolari che ha già citato Gatti, porto soltanto alcuni dati numerici.

I tedeschi spostano truppe verso l’Italia fin dal maggio 1943. Il 26 luglio, il maresciallo Erwin Rommel viene incaricato di formare un comando di gruppo d’armata a Monaco, quello che sarà il gruppo d’armata “b”, con il compito di controllare fino a novembre il nord Italia. Poi questo compito passerà al gruppo “c” di Kesserling.

A disposizione dei gruppo d’annata “b” ci sono 6 divisioni di fanteria, una divisione corazzata, una meccanizzata e una brigata, per un totale di 120.000 uomini, che vuol dire una forza combattente di 40.000. Con questa forza, Rommel doveva disarmare tutto il nord, dal confine con la Francia fino al Mar Adriatico e al confine con la Jugoslavia, comprendendo Genova, la Spezia, fino all’Appennino. Allora i tedeschi, attorno all’8, al 9 settembre, vedendo che gli italiani fortificavano le loro posizioni nelle caserme, aspettavano di essere attaccati. Ma così non avviene, e allora partono, e succede quel che succede.

Un’ultima annotazione, poi chiudo e vi lascio dei dubbi. Gli ordini che ha l’esercito italiano [attorno all’8 settembre] sono: “Sparate se venite attaccati, ma non attaccate” e questo, appunto, permette ai tedeschi di avanzare senza grossi problemi. Tralasciamo gli episodi di vigliaccheria, il termine è pesante, ma per un militare… Un solo esempio: il comandante della 157° divisione di fanteria in rientro dalla Francia, il quale dice agli ufficiali tedeschi che gli hanno chiesto un colloquio: “Io mi arrenderei anche, però il mio onore militare me lo impedisce. Fate sparare 2 colpi di cannone contro la mia caserma, e io mando un colonnello con l’ordine di arrendersi”. Questo era l’onore militare…

Poi ci sono quelli che resistono. Come Tortona, un pochino, come Piacenza, che resiste 12 ore e riesce a provocare perdite. Il Moncenisio resiste 24 ore, e si arrende perché alle spalle gli stanno avanzando le “S.S.” di una divisione meccanizzata, che da Torino avanzava, e quindi sarebbero stati presi in mezzo. Si arrendono dopo l’ultimatum che intima loro di deporre le armi e minaccia la fucilazione, perché nessuna dichiarazione di guerra è stata fatta nei confronti della Germania. I tedeschi commetterebbero un crimine, ma avrebbero tecnicamente ragione.

Dopo di che, ci sono aspetti poco chiari, confermati da queste relazioni. Ad esempio, le grandi navi da battaglia che prendono il largo da Genova e la Spezia [immediatamente dopo l’armistizio]. Voi sapete che una nave da battaglia impiega 24 ore a mettere le macchine in pressione, non è come un sommergibile, che esce con il motore elettrico, e poi procede con il diesel, scusate i particolari tecnici, ma una corazzata ha bisogno di 24 ore! Quindi, evidentemente, gli ordini erano arrivati, probabilmente gli alleati avevano posto queste condizioni, e perciò il gruppo dirigente in fuga a Pescara aveva scelto di sacrificare i fanti, ma di salvare le corazzate per fare un piacere agli alleati. Questo era il prezzo, quello che capitava a un milione e mezzo di esseri umani non importava niente a nessuno.

Da queste fonti, questo dato di fatto emerge con grande chiarezza.

Riscaldo Mussio

Il mio intervento si limiterà solo ai giorni dell’armistizio, cioè ai giorni in cui noi militari ci trovavamo ai confini con la Francia, avendo la possibilità di ricevere la notizia dell’armistizio solo da “radio naja”, come dicevamo noi, non certo dal comando ufficiale. Ci trovavamo allora a Prati Murtier, un distaccamento ai confini con la Francia, sui 2.000 metri, nell’Alta Valle Maira, nelle vicinanze del Colle Sautròn, dove, dopo un anno circa, avvenne l’incontro tra i partigiani italiani e i maquis francesi.

La notizia, inizialmente incerta, ci venne confermata dal nostro comandante di gruppo telefonicamente. Leggerò ora alcuni brani tratti dal diario che ho tenuto in quei quattro o cinque giorni e che riassumono brevemente il clima in cui si viveva. Siamo all’11 di settembre, dopo tre lunghi giorni di attesa; dal momento che nessuno ci comunicava nulla, anche se noi avevamo respinto come oltraggiose le richieste dei generale di corpo d’armata, Rocchieri, che da Milano ci chiedeva di presentarci e di arrenderci ai tedeschi, dopo che fu arrivato l’ordine di scioglimento dei reparti, ordinai agli uomini di raggiungere come si poteva le proprie famiglie. Eravamo verso la mezzanotte.

“Ordinai pertanto di utilizzare le torce antivento che avevamo in dotazione e che ci illuminarono, distesi noi in fila indiana come un lungo serpente, nella lunga e sconsolata marcia notturna. E sulla tortuosa mulattiera che rapida scendeva verso Saretto, nessuno parlava, mente quelle torce che ci davano una luce gialla e tremolante, trasformavano in ombre gigantesche e paurose le nostre dimesse persone. Solo il monotono e rumoroso scricchiolio degli scarponi a contatto con la sconnessa massicciata, fatta di informi pezzi di roccia e ciottoli, saliva verso il cielo, sperdendosi nell’oscurità della notte.

Ci muovevamo più per istinto che per una determinata e ferma volontà e avevamo l’impressione di scendere in un baratro senza fine. Dietro di noi, anche se in un modo ancora confuso, si sperdeva il nostro passato, si dileguavano le nostre amicizie fraterne e i nostri anni migliori, persi, nell’illusione di difendere una patria che ora, proprio nel momento più delicato e difficile, ci abbandonava al nostro destino.

Eravamo una cinquantina in tutto, con sulle spalle pesanti zaini, grossi pacchi e vecchie e sdrucite valigie: le giberne, i cappotti, le ultime armi individuali che qualche illuso aveva ancora tenuto a tracolla, e ogni altra cosa considerata superflua, venivano disseminate lungo il percorso. Anch’io, Dio sa con quanta riluttanza, mi disfeci del cinturone, della fondina e della rivoltella, nascondendo tutto dietro un roccione.

All’alba, sfiduciati e con le teste dondolanti come chi è stremato dalla stanchezza e cammina solo per inerzia, arrivammo sfiniti a Saretto, dove ci rendemmo conto in quale stato di profonda prostrazione eravamo precipitati. La caserma, con le finestre spalancate e le porte sfondate, era devastata, e i magazzini svuotati delle armi e dei generi alimentari: come se fosse stata invasa da un’orda di famelici lanzichenecchi.

Qualche orma di farina bianca mischiata alla polvere e sparsa un po’ qua e un po’ là, non ci lasciava dubbi: tutto era stato saccheggiato; gli abitanti della frazione, con una tempestività degna di ogni elogio, avevano fatto man bassa di ogni cosa utile.

I soldati, che ancora in divisa, e chi già in abito civile, sparsi a crocchi nel cortile, concertavano il da farsi, mentre, a quella incredibile visione di disfatta, l’idea che mi aveva martellato in testa per tutta la notte, si stava inevitabilmente ed inesorabilmente svuotando di ogni possibile concretezza: nessuna forza umana avrebbe potuto trattenere per un solo minuto in più quei ragazzi, molti dei quali avevano le lacrime agli occhi. Tuttavia, riuscii a fermarli un momento, e a dir loro di non fare stupidaggini, di non commettere inutili atti di spavalderia.

Ognuno di noi, vittima di quell’immane disastro, di quella Caporetto provocata da quell’incapacità e dell’insipienza degli alti comandi militari, e senza un Piave che avrebbe fatto da argine, come avrebbe potuto infatti pensare di riuscire a capovolgere la situazione con le proprie mani? Come avrebbe potuto credere, peraltro, di essere nel giusto, se avesse preso le armi contro i tedeschi, quando i generali e i colonnelli invitavano alla resa o si mettevano in disparte? il pensiero opprimente di ognuno, con la propria sofferenza e col proprio stato d’animo, era quello della famiglia lontana che doveva essere raggiunta ad ogni costo e al più presto. E con l’amico fraterno col quale aveva condiviso le incertezze e le amarezze degli ultimi giorni [ognuno] discuteva animatamente e a lungo per trovare in comune una via che fosse la meno lastricata di rischi e di pericoli e che, in ogni caso, avrebbe dovuto portare al paese natio.”

Raggiunta Acceglio, cioè il capoluogo, per così dire, dell’alta Valle Maira, su proposta del nostro comandante, il capitano Mansueto Rapetti di Orsara Bormida, ci impadronimmo di un camioncino, e partimmo per Cuneo.

“Scendevamo e guardavano sgomenti la valle che lasciavamo dietro di noi con le sue boscaglie, in cui gli scoiattoli squittiscono felici, e nel cui fitto fogliame schiamazzano gli urogalli; lasciavamo Pratorotondo, il Piano della Gardetta, la Rocca la Meia, il rifugio Escalon, lo Scaletta coi suoi picchi vertiginosi, l’Oronaye coi suoi crepacci traditori, il Bric Content, dalla cui cima si vedono i paesi e le città della pianura Padana; lasciavamo i prati erbosi attorno ai laghi di Roburent sui quali pascola tranquillo il camoscio in compagnia della timida marmotta, uscita, con l’aria tiepida, dal suo rifugio sotterraneo; lasciavamo gli amici e i soldati che ci erano stati vicini nel bello e nel cattivo tempo; lasciavamo il Sautròn, il Bellino e tante piccole e solide casermette che ci avevano ospitato per più di tre anni; lasciavamo Frere, Pratorotondo, Chialvetta, Saretto, Acceglio, Prazzo: i luoghi delle nostre adunate, delle nostre accese discussioni, delle nostre faticosissime marce, i luoghi della nostra vita in comune con siciliani, calabresi, abruzzesi, emiliani, toscani, veneti, lombardi e piemontesi; davamo l’ultimo sguardo ai tanti picchi a noi familiari e salutavamo la brava gente dell’alta Valle Maira che aveva convissuto con noi per tanto tempo; lasciavamo dietro di noi tre anni della nostra vita, e davamo l’addio per sempre a quel piccolo cimitero di guerra in cui riposano le salme di alcuni dei primi caduti della seconda guerra mondiale.”

“Per la strada, lungo la quale si procedeva lentamente e sempre con ogni possibile cautela, toccammo con mano lo sfacelo del nostro esercito: nei fossi e nei prati, infatti, si vedeva ogni sorta di materiale militare, tra cui armi leggere e pesanti delle quali si erano liberati i reparti in rotta. Tuttavia, nelle vicinanze di San Damiano Macra, con nostra meraviglia, incrociammo due autocarrette stracolme di alpini che, anziché scendere, salivano su per la valle. Proprio così, mentre l’esercito italiano era allo sbando, alcune autocarrette cariche di alpini dai volti abbronzati e decisi, salivano arrancando lentamente su per la valle.”

Questi furono sicuramente i primi partigiani della Valle Maira. Noi proseguimmo per la nostra strada. A Dronero salutammo il nostro comandante, e partimmo alla volta di Cuneo, dove, alla stazione, occupata da un solo militare tedesco, uno solo, senza carri armati come è stato detto fossero da queste parti: no, un solo militare tedesco ha occupato la stazione, e controllava tutti quanti.

“Partimmo verso le quattro del mattino, dopo essere stati rannicchiati in un angusto spazio, sulla locomotiva, per più di un’ora, e ci sentimmo subito più liberi, finalmente, di muovere le gambe e le braccia a nostro piacimento e di fumare l’ultima sigaretta, mentre la locomotiva, ben controllata dagli occhi vigili dei macchinista volava instancabile nella notte: ci sembrava che anch’essa si sentisse più libera di squarciare il buio velo della notte con l’incontenibile forza dei suoi stantuffi che spingevano ad un ritmo che noi avremmo voluto sempre più veloce”.

Voglio a questo punto ricordare che il mio racconto sarà dedicato ai ferrovieri i quali, in quell’occasione; hanno dato un grande contributo affinché decine di migliaia di soldati potessero raggiungere le loro famiglie.

“Nelle vicinanze di Strevi, il capitano Rapetti fece fermare il locomotore e scese. A voce alta, voltandosi verso di noi, disse: «Vi saluto tutti, cercate di salvare la ghirba. Io sono sulla giusta strada, e fra un’oretta sarò a casa.»

La locomotiva, col suo carico di larve umane, ripartì, per fermarsi, per ragioni di sicurezza, a circa trecento metri dalla stazione di Alessandria, che si intravedeva solo per le poche, fioche luci azzurre, e che praticamente era ancora immersa nel buio ed ingolfata di gente e di tedeschi.”

Da Alessandria siamo poi saliti, in pochi, su un altro treno che arrivava fino a Voghera. A Tortona, io non vidi nessun carro armato, vidi solo una stazione deserta, però con due pattuglie di tedeschi che controllavano tutti i passeggeri. Da Tortona, fu poi facile arrivare a Pontecurone, e da lì a casa.

Detto questo, e mi scuso per aver letto, voglio ora dare tutto il mio assenso su quanto detto dal professor Dellavalle circa una ipotetica riconciliazione tra partigiani e fascisti. Voglio a questo proposito rileggere solo alcune righe che Alessandro Galante Garrone ha scritto nei giorni scorsi sulla stampa, per precisare come stanno in realtà le cose: “Ciò che conta nella storia, nel Risorgimento, come nella Resistenza, è il senso della civiltà che avanza, e che abbatte i suoi nemici. Per questa ragione, nella nostra Resistenza, per noi i nemici furono e restano i tedeschi hitleriani e insieme a loro gli italiani che si misero e restarono al loro servizio. Un accordo, una qualsiasi manifestazione di riconciliazione, equivarrebbe a cancellare il senso di ciò che è stata la Resistenza. Una iniziativa del genere, rischierebbe di approdare ad una commedia insincera ed ipocrita. Sia dunque rispettata la storia, senza odio, ma nella chiara, onesta coscienza di quello che allora ci divise: una suprema questione di civiltà.”

Cesare Manganelli

Vista la compatezza e la completezza degli interventi che mi hanno preceduto, ho intenzione di tagliare dal mio intervento tutto quello che è già stato detto molto meglio di quello che avrei potuto fare io. Accennerò solo a tre elementi importanti nella valutazione del fenomeno dell’8 settembre.

Partiamo da un pretesto, che è questo volume appena uscito, “Una nazione allo sbando” di Elena Aga Rossi, libro che consiglio a tutti, perché risponde alle caratteristiche positive che sia il professor Dellavalle che il professor Mantelli hanno indicato, cioè una visione “larga” che coinvolge tutti gli attori di quello che è non solo un avvenimento, ma è anche un rapporto, oltre che uno scontro, tra due nazioni.

Questo libro si basa essenzialmente sulla documentazione diplomatica angloamericano e italiana – non a caso costituisce l’introduzione a un volume di documenti diplomatici [ …]. Facendo ad esempio riferimento all’episodio della flotta italiana, “salvata” nel giorno della disfatta dell’esercito italiano, come si diceva nell’intervento di Mantelli, occorre considerare che l’Italia era stato il vero nemico, dal punto di vista aeronavale, dell’Inghilterra, nel Mediterraneo, negli anni precedenti, e quindi in una logica “imperiale” questo patrimonio bellico risultava strategico.

Questo risulta molto evidente nel libro della Aga Rossi, che guida nella “camera alta” della politica internazionale di quel periodo: emerge il punto di vista di Roosevelt ed esce confermata ancora una volta la grande capacità strategica di questo statista [ …].

Insomma, anche questo interessante testo conferma, nella sua prima parte, i canoni tradizionali della storiografia sul periodo. Nella seconda parte, invece, improvvisamente gli elementi di giudizio risultano rovesciati. Leggo solo una piccolissima parte, da cui risulta che, per quanto riguarda il comportamento di parte italiana, il giudizio che si ricava è di una totale incapacità di governo degli avvenimenti, e di una notevole mancanza di contatto con la realtà da parte della classe dirigente monarchico-militare. Il post fascismo del 25 di luglio, da questo punto di vista non era sostanzialmente diverso dal fascismo degli anni di guerra. Leggiamo: “Il modo nel quale avvenne la fuga del re e del governo da Roma, al momento dell’armistizio, e la mancanza di leadership dimostrata in quel momento, furono probabilmente determinanti nel far prevalere il voto antimonarchico nel referendum del ’46. I costi dei crollo dell’autorità statale in quel momento, sono stati pagati dall’intero popolo italiano”. Fino qui siamo nell’alveo della tradizione storiografica […].

A questo punto, l’autrice dice sostanzialmente questo, e cioè che la classe dirigente antifascista ha sottovalutato gravemente l’apporto dei badogliani nella Resistenza, e ha fondato la nuova Repubblica sulla “sabbia”, vale a dire sulla Resistenza. Non a caso, a questo punto nel testo della Aga Rossi, sono presenti tutti gli autori citati oggi da Dellavalle nel suo intervento.

Partendo dunque da fonti molti tradizionali, ci troviamo qui davanti ad un rovesciamento politico ideologico delle interpretazioni correnti.

Io penso invece che l’atteggiamento della classe dirigente antifascista nei confronti dell’operato della monarchia e dell’esercito, è in realtà la traduzione di un sentimento largamente presente nel paese all’indomani della guerra. Tale sentimento non poteva che inasprirsi di fronte alla totale impunità – altro aspetto molto importante – dei responsabili di questa vicenda in momenti decisivi per la storia della patria, per usare un termine caro alla loro cultura politica.

Ricordiamo che la reticenza e l’omertà dei protagonisti impedì alla commissione d’inchiesta sulla mancata difesa di Roma nel ’44, di addivenire ad una conclusione. Stessa sorte toccò alle indagini condotte dall’alto commissariato sulle sanzioni contro il fascismo ed a quelle della commissione d’inchiesta sul comportamento degli ufficiali voluta dallo stesso Badoglio.

[…] Tra gli elementi sui quali la classe politica antifascista fondò la propria ripulsa nei confronti della monarchia e dell’esercito, altri due in particolare, coi tempo, risultano essere decisivi: il primo è il problema degli internati italiani. Le descrizioni fatte [oggi] da Mussio e da altri devono essere inserite in un quadro che vede una situazione catastrofica: su circa 3.700.000 italiani in armi in quel momento, oltre 1.000.000 furono disarmati, almeno 800.000 furono internati, di questi, 100.000, oppure 70.000, le interpretazioni non sono univoche, optarono per l’arruolamento nelle divisioni della repubblica sociale. I morti [tra gli internati] sono stati calcolati attorno ai 45.000, escludendo però i caduti in combattimento e i feriti, gli invalidi e i deceduti dopo il ritorno in patria.

Per quanto riguarda il secondo elemento di valutazione di cui parlavamo, il bottino di guerra sottratto all’esercito italiano consiste in una quantità ingente di armi, automezzi, materiale bellico vario largamente superiore a quello ricavato [dai tedeschi] nelle singole campagne di Polonia, Francia e dei Balcani. Solo la campagna di Russia può essere, sotto questo punto di vista, comparabile agli effetti della resa italiana.

Altrettanto importante per l’economia bellica della Germania nazista, fu la cattura dei depositi di merci militari: 12.650 tonnellate di materiale sanitario, 250.000 tonnellate di viveri, 3.400.000 coperte, 140.000 rotoli di filo spinato… l’elenco è infinito, per non parlare dei saccheggio dell’economia italiana praticato nei 20 mesi successivi.

Le cifre evidenziano la realtà di una catastrofe nazionale, che ogni cittadino, militare o civile, era in grado di valutare correttamente. Tali valutazioni, e i convincimenti che ne derivarono, non possono essere tralasciati come “favole” degli antifascisti, ma, al contrario rappresentano la presa d’atto di una realtà incontrovertibile. Proprio il libro della Aga Rossi evidenzia bene il modo di vedere del ristretto gruppo dirigente che firmò l’armistizio, ed era un modo di vedere nettamente sfalsato rispetto alla vera portata degli avvenimenti.

L’ultima annotazione, prima di chiudere, riguarda la deportazione degli ebrei.

Voi saprete, c’è un bellissimo libro in questo senso che si chiama “L’ebreo in oggetto”, che nelle prefetture, nelle questure, nei municipi italiani, nel corso della campagna della legislazione razziale, furono accumulati enormi quantitativi di documenti riguardanti l’anagrafe, le scelte politiche, la situazione patrimoniale degli ebrei. Aver firmato l’armistizio, e non aver neanche pensato al modo di rendere innocuo questo materiale o a impartire disposizioni precise ai funzionari affinché non mettessero più in pratica queste misure, è un altro elemento che, pur riguardando un piccolo segmento dell’amministrazione, qualifica di fatto tutto un regime. Gli ebrei italiani erano discriminati [anche dal governo dei dopo 25 luglio], ma non erano condannati a morte. Le scelte fatte all’8 settembre, però, rese di fatto esecutiva la condanna per i 7.500 ebrei italiani e non italiani residenti in questo paese. Se consideriamo che, di questi 7.500 3.500 furono presi dal settembre al dicembre, il giudizio di irresponsabilità per il gruppo dirigente [del 25 luglio], non può essere considerato semplice frutto di un pregiudizio ideologico.

Claudio Dellavalle

Molto rapidamente. E stato un pomeriggio interessante, e devo dire che non so se a Torino, che pure è una grande città, un incontro di questo genere avrebbe raccolto proporzionalmente lo stesso successo. Devo quindi fare un elogio a quelli che abitano da queste parti per la sensibilità dimostrata.

Spero che le cose che sono state dette possano servire a ragionare, a pensare, a riflettere, a non raccogliere quello che ci viene detto in modo acritico. Credo che gran parte delle persone che sono qua dentro hanno passato tutta la vita in termini critici rispetto ad un sistema che non ha realizzato le cose per cui loro si sono battuti, diciamoci pure tranquillamente questa verità.

Tuttavia, io non voglio chiudere in termini di riflessione amara. Il tentativo che ho fatto con voi, di ragionare facendo riferimento ad un ipotetico giovane, è stato quello di provare a guardare le cose che ci riguardano direttamente in termini di allargamento e non di chiusura, nel senso che io sono convinto che non c’è nessun altro luogo [storico] in cui gli italiani possono andare a cercare per avere un qualche orientamento nella crisi che stiamo attraversando, che non siano quei famosi 20 mesi che stanno dentro la seconda guerra mondiale. Per me, quello è un periodo fondante, che sia stato più o meno efficace, è un altro discorso, attorno al quale possiamo discutere in termini storici. Ma di fatto, non vedo altri luoghi cui fare riferimento, da cui attingere gli elementi per poter guardare avanti. Noi tutti abbiamo bisogno della storia, poi possiamo usarla come vogliamo, ma è necessario fare i conti con la storia come punto su cui esercitare il proprio ragionamento, la propria razionalità, mettendo in gioco anche ciò che razionale spesso non è, come i sentimenti, i modi di vivere, e le passioni… Ebbene, se c’è un momento in cui razionalità, sentimento e passione civile si intrecciano, è proprio localizzato in quei 20 mesi. Sarà un caso, ma le persone che sono uscite da quei 20 mesi, qualunque fosse il loro colore, nella stragrande maggioranza hanno risposto positivamente ai problemi che la vita difficile del “dopo” ha posto. Più ci siamo allontanati da quei tempo, più le cose si sono rese difficili, meno leggibili, e tutti noi siamo stati meno sicuri nell’interpretare quello che ci stava di fronte.

Non è, quindi, per un appello ai buoni sentimenti, per così dire, per un recupero delle origini, ma se noi viviamo in un paese la cui Costituzione è fondata sui valori della Resistenza, lì bisogna continuare a tornare, anche se dovessimo fare una seconda repubblica. Io non credo che un’ipotetica altra costituzione potrebbe negare la precedente, semmai la può perfezionare, migliorare, rendere più efficiente ed adeguata ai tempi, ma non metterne in discussione i valori su cui quella si è basata. [ …].

Non è facile discutere di queste cose, anche perché, purtroppo, negli anni, un’eccessiva patina politica, diciamo così, ha coperto quei 20 mesi. C’è stato cioè uno sfruttamento intensivo sotto il profilo politico e partitico, che in se’ non è un fatto negativo, ma forse ora costituisce un impedimento più che un aiuto per capire quei mesi.

Io mi sono occupato di storia della Resistenza tanfi anni fa, poi c’è stato un lungo periodo in cui ho seguito il dibattito, ma non più con l’interesse immediato della ricerca. Tornandoci in tempi recenti, avendo acquisito nel frattempo una certa esperienza professionale, mi sono accorto che quei 20 mesi hanno ancora tanto da dire, purché abbiamo il coraggio di fare i conti fino in fondo con la verità.

Ci sono infatti anche cose sgradevoli, all’interno di quei 20 mesi, come sono gradevoli e sgradevoli tutte le imprese umane: bisogna riuscire a far venir fuori il meglio. Quale è la forza che spinge, comunque, a riconsiderare quelle cose? Quelli che hanno partecipato, che sono stati coinvolti fino in fondo in questo discorso, hanno dato il meglio di se’ in quest’impresa. [Si è trattato di] un fatto collettivo che, nella vita del paese, ha costituito l’apporto di ciascuno dei protagonisti ad un fatto collettivo, al più alto livello possibile.

Difficile trovare altri momenti simili nella nostra storia recente. Quello resta un nostro punto di riferimento incancellabile, se si ha, però, ripeto, l’intelligenza e il coraggio morale di dire anche le cose che non sono andate bene e che non hanno funzionato. Senza un discorso sincero come questo, non si scopre nulla di nuovo, non si riesce più a parlare con i giovani e si ripetono solo le vecchie formule.

Per questo sono molto contento che oggi, anniversario dell’8 settembre, io abbia potuto farvi un discorso di questo tipo, il cui atteggiamento di fondo è stato largamente condiviso dagli altri che sono intervenuti. Spero che altre occasioni di confronto possano venire: abbiamo da ripercorrere i 20 mesi, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. La generazione che ha vissuto quei momenti sta arrivando alla fine, ma credo che abbia, con quelle capacità di durezza e “resistenza” che ha saputo esprimere in quegli anni lontani, abbia ancora la capacità di mandare dei segnali importanti, che vanno tutti raccolti, perché le prove che aspettano il nostro paese saranno molto difficili.

Sapere che nella porta accanto, nella strada che si frequenta, c’erano persone che in certi frangenti hanno saputo, dentro di sé trovare le risposte e assumersene le responsabilità, è un insegnamento che non deve andare perduto.


Note:

1. Cfr. Bruno Cartosio. Memoria e storia: una famiglia tortonese nella guerra (1940- 1945), in “Quaderno si storia contemporanea”, 1990, n.8, pp. 57-81.

2. Alcune delle frasi qui e in seguito citate dall’autore sono tratte da Daniele Borioli e Roberto Botta, I giorni della montagna. Otto saggi sui partigiani della “Pinan Cichero”, Alessandria, WR, 1990.

3. Si fa riferimento al settimanale “Il Popolo”, giornale della curia tortonese.

4. Cfr. Giampaolo Pansa, Guerra partigiana fra Genova e il Po. La Resistenza in provincia di Alessandria, Bari, Laterza, 1967.

5. Cfr. Brunello Mantelli, Le relazioni militari tedesche sul disarmo delle truppe italiane nell’Alessandrino dall’8 al 9 settembre 1943, in “Quaderno di storia contemporanea”, 1990, n.8, pp. 129- 143.

6. SI fa riferimento ai testi: Giorgio Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, 3 voll., Genova, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1985, e Ruggero Zangrandi, 25 luglio- 8 settembre 1943, Milano, Feltrinelli, 1964.

7. Testimonianza riportata in Daniele Borioli e Roberto Botta, op. cit.

8. Testimonianza raccolta dall’autore.

9. Cfr. la deposizione dello stesso Aldo Ponta riportata in William Valsesia, I carabinieri nella Resistenza in provincia di Alessandria, Alessandria, Amministrazione provinciale, 1989.

10. Parzialmente riportata in D. Borioli e R. Botta, op. cit. I testi integrali delle interviste ai partigiani sono conservate presso l’Archivio Fonti orali dell’Istituto per la storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Alessandria, Fondo Pinan Cichero.

11. Cfr. Beppe Ravazzi, I guerriglieri dell’Arzani, Tortona, 1965.