Giuseppe Romita e la battaglia per la Repubblica di Federico Fornaro

Si apre nel dicembre 1945 per Giuseppe Romita una stagione brevissima – otto mesi-, vissuta con straordinario impegno e con un unico obiettivo politico da raggiungere: la vittoria della Repubblica nel referendum istituzionale (1).
La successione di Parri alla guida del governo segna, infatti, un evento storico, con un cattolico militante, Alcide De Gasperi, che per la prima volta diventa presidente del consiglio.
Ai partiti della sinistra il primo governo De Gasperi garantisce alcuni vantaggi pratici immediati, rafforzando l’alleanza tra le tre grandi forze popolari (democristiani, comunisti e socialisti) ed insieme la coalizione antifascista in vista dell’appuntamento del referendum istituzionale (2). Nella compagine ministeriale i socialisti sono rappresentati dai riconfermati Nenni (vice presidente del consiglio e ministro per la Costituente), Barbareschi (Lavoro) e Romita che passava, però, dal ministero dei Lavori pubblici a quello dell’Interno, non senza contrasti e opposizioni da parte dei settori moderati della coalizione per via della decisa opzione repubblicana del PSI:
«Noi socialisti volevamo che quel dicastero, d’importanza fondamentale nella vita del Paese, fosse in sicure mani repubblicane. E lo volevamo non foss’altro per bilanciare lo squilibrio determinato dal fatto che tutto il meccanismo statale si presentava con una struttura decisamente monarchica».
Ed ancora:
«Era il primo governo con un cattolico quale Presidente dei Consiglio, il primo governo con un socialista al ministero degli Interni, il primo governo, dopo la liberazione, che riprendeva dalle mani degli Alleati la diretta amministrazione di tutto il territorio nazionale, eccezion fatta per le zone di confine ancora in contestazione. Era, dunque, un governo che non aveva di simili nel passato e che doveva affrontare il problema di una scelta istituzionale anch’essa senza precedenti; un governo singolare in un momento eccezionale per la vita del Paese» (3).
Alla guida del ministero dell’Interno in vista del referendum istituzionale, egli dedica tutte le sue energie, non aderendo ai ripetuti inviti rivoltigli da Nenni di non dimenticarsi di essere uomo di partito.
La posta in gioco, per un repubblicano di lunga data come lui, era troppo importante per rischiare di compromettere il risultato finale con qualche piccolo errore di percorso.
Un’unica decisione di Romita è risultata controversa nel giudizio storiografico: la sostituzione dei prefetti e dei questori della Resistenza, con uomini della burocrazia statale (4).
Questa scelta di “normalizzazione”, peraltro contenuta negli accordi di governo per espressa volontà del partito liberale, viene, infatti, considerata da alcuni come l’inizio di una sorta di restaurazione della vecchia struttura burocratica, fortemente compromessa con il fascismo. Valga per tutti il severo giudizio di Leo Valiani:
«Romita sperava, da parte sua, di poter indirizzare in senso repubblicano i prefetti che venivano a dipendere da lui, nel periodo precedente le elezioni. Alcuni singoli uomini sarebbero potuti entrare in carriera, ma la quasi totalità veniva man mano estromessa dalle cariche. Le conseguenze di tale fatto sullo spirito pubblico sarebbero state anche più garvi di quelle politiche. Fino a che l’esserne stati attori costituiva prova di benemerenza patriottica, di ferinezza nell’adempimento di doveri civici, al punto di essere motivo di precedenza nei ranghi più delicati dei servitori del Paese, la Resistenza dava l’impronta alla nuova etica nazionale. Cessata questa funzione, la Resistenza e dunque l’antifascismo faceva la fine del garibaldinismo dopo il 1870, glorioso nei libri, ferrovecchio ingombrante nella vita » (5).
Per contro Romita, commentando in epoca successiva la scelta compiuta in quei giorni, scrive:
«A metà circa di febbraio eseguii un’operazione che si prospettava fondamentale per la normalizzazione dei Paese e che rientrava nel programma del governo: rimossi dall’incarico buona parte dei prefetti politici e li sostituii con elementi di carriera. Un tal fatto potrà apparire oggi normale e logico. Eppure a quei tempi ebbe un certo carattere anticonformista. I prefetti politici erano il risultato dell’abbattimento della dittatura e significavano quindi antifascismo, mentre i prefetti di carriera, che avevano servito anche durante il non mai abbastanza deprecato regime, potevano apparire come il ritorno ad un passato che nessuno desiderava riesumare. Tuttavia, i prefetti di carriera volevano dire qualcosa di più: continuità dello Stato, normalità. E non esitai, dunque, sia pure contro il parere di alcuni autorevoli compagni di partito, a fare il mio dovere» (6).
Dalla lettura dei verbali dei consiglio dei ministri del 31 gennaio e del 15 febbraio 1946, emergono con chiarezza i tratti di un confronto politico-ideologico che vede Nenni, Togliatti e Lussu su posizioni di difesa ad oltranza dei prefetti politici; mentre Brosio per i liberali e Molè per Democrazia del lavoro, richiedono il rispetto degli accordi che prevedevano esplicitamente il ritorno ai prefetti di carriera (7).
In questo frangente Romita si muove, appoggiato con decisione da De Gasperi, per ricercare una soluzione di compromesso che salvi l’immagine degli uomini della Resistenza, ma al tempo stesso avvii un ineluttabile processo di ritorno alla normalità negli organi dello Stato. Questo tentativo è coronato da successo e porta alla designazione di prefetti di carriera nella stragrande maggioranza delle sedi; decisione mitigata dalla opportunità di immissione in carriera che viene offerta ai prefetti politici, a condizione che accettino uno spostamento di sede. Questa opzione sarà, però, utilizzata da pochi, anche in ragione della scelta compiuta dai più di presentarsi candidati alla Costituente.
Il ministro opera, invece, con grande energia per consentire, nel o 1946, il reclutamento, nella Polizia di Stato di oltre quindici mila partigiani, attirandosi per questo l’accusa, di parte moderata di voler creare una sorta di “milizia” repubblicana (8). In realtà, egli, di fronte all’inderogabile necessità di rafforzare i servizi di polizia, sceglie la strada di rivolgersi
« ad una categoria di cittadini già selezionata e che aveva fornito l’inconfutabile prova di servire gli ideali di libertà, per difendere i quali la polizia andava appunto rafforzata» (9).
La sua azione ministeriale si sviluppa su due fronti paralleli: da un lato il ripristino dell’ordine pubblico (10), la lotta al neofascismo, la riaffermazione della legalità dello Stato contro il fenomeno del banditismo (in Sicilia soprattutto) (11) e la non semplice gestione delle sommosse popolari contro la disoccupazione e la miseria. L’altro quello della guida della “macchina” elettorale in modo e le forze repubblicane si presentino alla scadenza referendaria nella migliore posizione possibile.
A poche settimane dall’insediamento egli chiarisce alla stampa il suo pensiero sul problema del neofascismo e sugli interventi da attuare per giungere ad una normalizzazione politica e amministrativa:
«Io ritengo di essere stato uno dei primi uomini politici che ha dichiarato e dichiara che per salvare il Paese occorre arrivare rapidamente alla pacificazione politica, ma tale pacificazione non si può ottenere se dei residuati dell’antico fascismo, con mezzi violenti ed illeciti, continuano la loro azione, dimenticandosi che il fascismo è stato condannato dalla storia, che ha rovinato l’Italia e che non è più tollerato né dagli italiani né dalle Potenze straniere. lo sono quindi per la pacificazione sociale e politica e credo di averlo dimostrato in ogni occasione, ma sarò anche inesorabile contro le forze del neofascismo, le quali impediscono al Paese di giungere alla necessaria normalizzazione, per sanare le piaghe che il fascismo stesso ha provocato. ( … ) Per arrivare a questa normalizzazione è indispensabile realizzare al più presto possibile le elezioni amministrative e politiche. Purtroppo, per varie cause e difficoltà dovute sia agli organi centrali che periferici non si è fatto molto in materia. ( … ) Le elezioni amministrative e politiche, infatti, riporteranno la tranquillità nel Paese se avverranno in perfetto ordine e assoluta legalità, perché allora, qualunque sia il risultato, saranno da tutti riconosciute. Provocheranno invece strascichi se il risultato sarà inficiato da evasioni, disordini e illegalità» (12).
E’ opinione comune degli storici che il merito maggiore di Romita, nella prospettiva repubblicana, rimanga quello di aver fatto svolgere prima del referendum un turno parziale di elezioni amministrative in comuni (Milano, in primis) in cui l’esito elettorale, favorevole ai partiti sostenitori della repubblica, creò un contraccolpo psicologico negativo per i monarchici (13).
Esse consentirono infatti di verificare l’efficienza della macchina burocratica e delle forze dell’ordine, non più abituate a consultazioni popolari fino al punto che vi furono problemi anche nel reperire cabine e urne. I positivi risultati ottenuti (14) evitarono che prevalesse la tesi del rinvio, fortemente osteggiata dal ministro. All’interno dei due grandi partiti della sinistra l’opzione del referendum popolare incontrò una certa diffidenza per il timore che fattori esterni e non facilmente controllabili – quali il ruolo della Chiesa e la disabitudine al confronto democratico ed elettorale delle masse – potessero giocare a favore della monarchia. Dal canto loro i monarchici, appoggiati dai partiti moderati della coalizione governativa, avevano fortemente sollecitato la scelta referendaria nella speranza, non del tutto infondata, che attraverso una drammatizzazione popolare e una conseguente spaccatura nel Paese, si sarebbero spostati verso la monarchia tutti i voti dei partiti di centro, Dc in testa. Non si dimentichi poi che la monarchia era il simbolo della patria, rappresentava la tradizione e il rispetto per il passato ed al tempo stesso un argine nei confronti di possibili esagerazioni parlamentariste (15).
La scelta tenacemente sostenuta da Romita, di non decidere la forma dello stato nell’Assemblea costituente ma di affidare questa scelta alla volontà popolare, non solo risulterà vincente in chiave futura – la Repubblica nei successivi cinquant’anni non verrà mai messa in discussione – ma rappresentò uno straordinario atto di fiducia nel carattere democratico del popolo italiano. Così, molti anni dopo, egli ricorderà quella sua posizione:
«Ho il merito di aver tenuto duro per il referendum. La Repubblica non poteva nascere nel chiuso dell’Assemblea dove rischiava di essere oggetto di mercanteggiamenti parlamentari e di presentarsi agli italiani, se pure vi fosse riuscita, come il prodotto di una combinazione astratta e astrusa. In più, proprio perché parte dei monarchici voleva il referendum, la Repubblica non poteva nascere rifiutando di battersi. Si doveva osare, Nenni capì e mi appoggiò per la scelta popolare diretta. I fatti ci diedero ragione» (16).
Il 2 giugno 1946, dopo una campagna elettorale molto animata, ma sostanzialmente corretta (17), e nonostante la rottura della tregua istituzionale con l’abdicazione di Vittorio Emanuele III a poche settimane dal voto, gli italiani vanno alle urne per eleggere l’assemblea costituente e per decidere tra monarchia e repubblica.
Il voto per la Costituente, che assegna la maggioranza relativa (35,2%) alla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi (18) è particolarmente favorevole ai socialisti, che con il 20,7% e 115 deputati, superano, non senza sorpresa (19), il Pci (18,9%).
Romita, che viene eletto alla Costituente nel collegio del Piemonte Sud (Alessandria, Asti e Cuneo), più che all’esito positivo delle liste socialiste sembra guardare al risultato del referendum istituzionale, a cui aveva lavorato senza risparmiarsi, arrivando a pernottare al Viminale per timore di possibili attentati, nei mesi della sua permanenza al ministero dell’Interno (20).
Nelle giornate successive ha luogo uno spoglio assai complesso, che a più riprese si è tentato di tingere di giallo con il colpevole, Romita, accusato di aver truccato i risultati a favore della repubblica.
Queste accuse, espresse dagli ambienti monarchici subito dopo l’esito negativo del referendum, non sono mai state supportate da prove storicamente attendibili, ma in ambito giornalistico questa tesi viene riproposta ciclicamente, non tanto con il fine di mettere in dubbio la correttezza del comportamento dell’allora ministro dell’Interno, quanto per togliere legittimità all’intero sistema politico e istituzionale della Repubblica.
Nel racconto di Romita vi è una spiegazione plausibile di come sarebbe nata la voce dei presunti brogli. I primi dati affluiti al Viminale, infatti, sorprendentemente provenivano dal Sud, tradizionalmente più lento nel fare pervenire i dati per le maggiori difficoltà di comunicazione tra i seggi e le prefetture, e davano un vantaggio anche consistente alla monarchia, che preoccupò non poco lo stesso ministro:
«Ma avevo paura, una paura terribile, addirittura una sorta di terrore, al pensiero che ad un certo momento fossi costretto a dir loro [a De Gasperi e a Nenni] che la monarchia era in vantaggio» (21).
Ancora nella notte fra il 3 e il 4 giugno la monarchia rimane in vantaggio e alcuni giornalisti, appresa informalmente la notizia, si lanciano nelle consuete supposizioni tra cui quella che: «Romita è troppo furbo per perdere così; lui è sicuro del fatto suo: ha un milione di voti nel cassetto» (22).
A conferma dell’incertezza di quelle ore è stata ora resa pubblica una lettera riservata di De Gasperi inviata nella mattina del 4 giugno al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero:
«Signor Ministro, Le invio i dati pervenuti al Min. dell’Interno fino alle 8 di stamane. Come vedrà si tratta di risultati assai parziali che non permettono nessuna conclusione. Il min. Romita considera ancora possibile la vittoria repubblicana. Io, personalmente, non credo che si possa – rebus sic stantibus – giungere a tale conclusione. P.S. Le cifre sono ancora confidenziali. Le sarò grato se Ella mi mandasse le sue eventuali informazioni accertate». (23).
Il destino volle che effettivamente un milione di voti repubblicani del Nord entrasse nella notte nei conteggi e consentisse alla repubblica di superare nettamente la monarchia, dando modo a Romita, nel pomeriggio del 5 giugno, di annunciare i risultati alla stampa italiana ed estera (24). Ed è quella immagine del piccolo uomo politico piemontese, che circondato dai giornalisti, dà l’annuncio della vittoria della Repubblica, che è rimasta nell’immaginario collettivo degli italiani, legando indissolubilmente il suo nome alla Repubblica.
Nei giorni immediatamente successivi gli ambienti monarchici non si dimostrano intenzionati ad accettare l’esito dei voto e, giocando sulla inevitabile lentezza della Cassazione nella comunicazione dei dati definitivi e sul fatto che i risultati forniti dal ministero riguardavano i voti validi e non già i votanti, necessari per calcolare la maggioranza utile per la vittoria di uno dei due schieramenti, iniziano una polemica politico-istituzionale assai pericolosa ,verso l’ordine pubblico. Romita è quindi costretto a presidiare giorno e notte il ministero nel timore, non del tutto infondato, di qualche colpo di mano di unità dell’esercito e dei carabinieri fedeli alla monarchia.
L’11 giugno 1946 tocca a Romita, su delega unanime dei partiti repubblicani, celebrare la vittoria, in una piazza del Popolo gremita all’inverosimile, con un discorso in cui difende non solo le ragioni antiche della repubblica, ma anche la legittimità dell’espressione popolare messa in dubbio dai monarchici:
«Non sono stati vani i sacrifici dei nostri martiri del primo Risorgimento e di tutti i nostri morti per giungere alla completa liberazione dell’Italia. Vengono ricompensate ancora le nostre privazioni e i sacrifici personali, sopportati affrontati con la decisa convinzione che il giorno del riscatto e della vittoria sarebbe venuto. La parte repubblicana d’Italia ne può andare orgogliosa: derisi un tempo (anche prima dei fascismo) per la nostra pregiudiziale istituzionale, tanto da essere tacciati di ingenui sognatori, oggi abbiamo avuto la soddisfazione di vedere allineati sulla stessa strada gli uomini più rappresentativi degli altri partiti della sinistra».
Ed ancora:
«L’Italia è repubblicana dal giorno in cui la volontà popolare si è manifestata chiara e solenne attraverso il risultato del referendum, cui era stata rimessa ogni decisione sulla questione istituzionale: in questo appello diretto al popolo, il popolo si è pronunciato, liberamente e democraticamente, contro la monarchia. Non resta ai Savoia che prenderne atto, e andarsene, dando libero corso all’applicazione della legge. L’Italia è repubblica nella coscienza dei suoi cittadini e nel riconoscimento spontaneo ed unanime degli altri popoli. Non si illuda il Savoia di strappare dalle mani dei popolo la vittoria, con argomenti da leguleio da strapazzo o con le interviste dei suoi aiutanti di campo, che disonorano lui e i suoi servitori di fronte alla Nazione. La vittoria è del popolo, la vittoria è nostra. Saprà difenderla in ossequio alla legge Governo democratico. Sapremo difenderla noi. Saprà difenderla il popolo. La pazienza è una virtù rivoluzionaria, allo stesso titolo della costanza, ma la pazienza ha un limite» (25).
Questo comizio conclude idealmente il periodo di straordinario impegno politico e ministeriale tutto teso a garantire la migliore transizione possibile verso il nuovo ordinamento istituzionale.
Al di là dell’enfasi di quei giorni in cui si viveva un cambiamento epocale, la vittoria della Repubblica fotografava un Paese profondamente diviso, con una linea di demarcazione che separava in modo netto e deciso le regioni che avevano vissuto l’esperienza della lotta di liberazione, a maggioranza repubblicana, da quelle del Regno del Sud, a forte prevalenza monarchica. I dati (in percentuale sui voti validi) sono estremamente eloquenti (26):
repubblica monarchia
Piemonte 57,1 42,9
Liguria 69,0 31, 0
Lombardia 64,1 35,9
Trentino 85,0 15,0
Veneto e Friuli 59,3 40,7
Emilia Romagna 77,0 23,0
Toscana 71,6 28,4
Marche 70,1 29,9
Umbria 71,9 28,1
Lazio 48,6 51,4
Abruzzo e Molise 43,1 56,9
Campania 23,5 76,5
Puglia 32,7 67,3
Basilicata 40,6 59,4
Calabria 39,7 60,3
Sicilia 35,3 64, 7
Sardegna 39,1 60, 9
Paradossalmente, però, ad uscire vincitore dalla battaglia per la repubblica non fu lo schieramento dei partiti della sinistra, ma la Democrazia cristiana, grazie allo straordinario acume di De Gasperi, che non schierandosi ufficialmente sul quesito referendario finì per diventare il coagulo di tutte le forze moderate e l’unico partito con un consenso omogeneo su tutto il territorio nazionale. I socialisti e i comunisti, infatti, ottennero nelle elezioni per la Costituente risultati assai deludenti in molte regioni meridionali, non arrivando in alcune di esse neppure a conseguire il 10% dei voti (27).
Alla luce del voto i rapporti di forza tra i partiti del Cln risultano profondamente cambiati (due partiti, il Partito d’azione e la Democrazia del lavoro sono praticamente scomparsi) e De Gasperi
mette subito a frutto il successo ottenuto con il varo di un nuovo dicastero, in cui le forze di sinistra sono meno rappresentate. Nenni annota amaramente sul suo diario:
«In conclusione abbiamo fatto la Repubblica non solo contro il Quirinale, ma anche contro il Vaticano e, sulla cresta dell’onda del suffragio universale, erge vittorioso De Gasperi» (28).
Dopo essere stato battuto sul filo di lana da Saragat per la presidenza dell’Assemblea costituente (29), il 13 luglio 1946 Romita torna a ricoprire, nel secondo governo De Gasperi, l’incarico di ministro i Lavori pubblici (30) lasciando quindi il Viminale, che diverrà per oltre quarant’anni patrimonio esclusivo della Democrazia cristiana.

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NOTE
1. Romita ha raccontato questa sua “avventura” con dovizia di particolari nel suo libro Dalla Monarchia alla Repubblica, cit.; a cui faremo, inevitabilmente spesso riferimento per cogliere appieno gli stati d’animo e le scelte compiute dal nostro nella non semplice transizione verso la Repubblica.
2. Lo rileva E. Piscitelli, Da Parri a De Gasperi, cit., pp. 142-143.
3. G. Romita, Dalla Monarchia alla Repubblica, cit., p. 7 e 9. Nenni parrebbe aver preferito, invece, una soluzione con De Gasperi agli Interni e lui agli cfr. P. Nenni, Tempo di guerra fredda, cit., p. 159.
Sulla questione si soffermano in particolare A. Gambino, Storia del dopogeurra. Dalla Liberazione al potere DC, Bari, Laterza, 1978, p. 163; C. Pavone, Alle origini della Repubblica, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 153-155; Ricci, Aspettando la Repubblica, cit., pp. 164-167 e id., Introduzione a Verbali del Consiglio dei Ministri. Governo De Gasperi, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1996, vol. VI, 1, pp. XXXII-XXXV.
4. L. Valiani, L’avvento di De Gasperi, Torino, Francesco De Silva, 1949, pp. 42-43.
5. G. Romita, Dalla Monarchia alla Repubblica, cit., p. 61.
6. Cfr. A.G. Ricci (a cura di), Verbali del Consiglio dei Ministri. Governo De Gasperi, cit., vol. VI, 1, pp. 273-289 e 393-401.
7. Ivi, vol. VI, 1, pp. 409-411 e 649-651.
8. G. Romita, Dalla Monarchia alla Repubblica, cit., p. 40.
9. In una delle sue prime interviste da ministro dell’Interno, Romita afferma suo compito, dopo essersi dedicato alla ricostruzione materiale del Paese, diventa quello di trovare le cause e i rimedi contro i danni morali provocati dal fascismo e dal nazismo; “Avanti!”, ed. torinese, 27 dicembre 1945.
10. Nel consiglio dei ministri del 6 febbraio 1945, Romita è costretto ad ammetterere che il livello raggiunto dal banditismo è tale da mettere in dubbio il regolare svolgimento delle elezioni amministrative, o, quanto meno, consiglia di e alle zone più tranquille, come poi avvenne; cfr. A.G. Ricci (a cura di), Verbali del Consiglio dei Ministri. Governo De Gasperi, cit., vol. VI, 1, pp. 342.
11. “Sempre Avanti”, 27 dicembre 1945
12. Le elezioni amministrative, svoltesi in cinque turni dal 10 marzo al 7 aprile 1946, interessarono 5722 comuni
13. Al termine delle operazioni di voto Romita ottenne e congratulazioni degli Alleati e dello stesso Consiglio dei Ministri; cfr. A.G. Ricci, Introduzione a Verbali del Consiglio dei Ministri. Governo De Gasperi, cit., vol. VI, 1, p.XCI.
14. Nel suo libro Dalla Monarchia alla Repubblica (cit., pp. 197-198), Romita indica dieci suoi “contributi” alla vittoria repubblicana:
1) «nell’aver compreso l’importanza delle elezioni amministrative in genere e quelle di Milano in particolare, e la portata dell’influsso psicologico che il risultato avrebbe avuto sull’elettorato italiano: non è stato Romita a creare la Repubblica, la Repubblica è scaturita dal voto dei lavoratori di Milano, che votando socialista votarono per una nuova forma istituzionale ed anche – mi sia consentito ricordarlo – per un nuovo tipo di società;
2) nell’aver compreso che ogni ritardo ed ogni rinvio della prova elettorale si sarebbe tradotto in una diminuzione del quoziente dei voti repubblicani e in una progressiva erosione del margine di sicurezza in favore della Repubblica;
3) nell’aver sostenuto che era necessario abbinare il referendum alle elezioni politiche e nell’aver saputo trascinare i monarchici – che oggi lamentano il errore – ad abbracciare tale tesi;
4) nell’aver saputo resistere agli inviti di Nenni, che avrebbe voluto indurmi più attiva politica di partito, o a quegli atteggiamenti demagogici che si riassumevano negli slogans tipo “o la Repubblica o il caos”, che giovarono alla monarchica più di qualsiasi comizio o di qualsiasi giornale filo-sabaudo;
5) nell’aver avuto fiducia nella maturità democratica del popolo italiano;
6) nell’aver garantito un’organizzazione dei comizi elettorali, che, tenendo conto dell’esiguità dei mezzi, della inadeguatezza delle forze di polizia, e pur nel clima arroventato in cui le elezioni si svolsero, può essere considerata superiore ad ogni aspettativa;
7) nell’aver disposto una dislocazione delle forze di polizia tale da consentire tempestivo ed efficace intervento per il mantenimento dell’ordine e della legalità, qualunque fosse stato l’esito delle elezioni;
8) nell’aver scoraggiato i tentativi insurrezionali dei monarchici più o meno alle alte sfere istituzionali e nell’aver impedito che qualsiasi attentato o colpo di mano avesse a ritardare la prova elettorale;
9) nell’aver dato al popolo italiano la certezza che il suo voto sarebbe stato rispettato, che ogni violenza sarebbe stata repressa, che sarebbe stata assicurata l’incolumità alla famiglia reale, che non sarebbe stato tollerato alcun danno od alcuna offesa a coloro che erano stati legati al vecchio istituto, ai monumenti, ai beni Savoia;
10) nell’aver sottoposto il giudizio sul referendum alla decisione della suprema Corte di Cassazione».
15. Lo annota E. Di Nolfo, La Repubblica delle speranze e degli inganni, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996, pp. 200-201.
16. Citato nell’articolo commernorativo apparso su ‘La Stampa” il 15 marzo 1958, dopo la sua scomparsa.
17. Nel consiglio dei ministri del 23 maggio 1946, Romita riferisce che l’ordine pubblico è sotto controllo ed è costantemente sottoposto a verifiche con ircolari alle prefetture e alle questure; cfr. A.G. Ricci, Aspettando la Repubblica, cit., p. 211.
18. De Gasperi riesce a capitalizzare al massimo l’intelligente e cinica decisione della Dc di lasciare libertà di voto” nel referendum isituzionale. Una scelta a favore di uno dei due schieramenti avrebbe, con ogni probabilità, provocato una spaccatura insanabile all’interno dei suo partito.
19. Umberto Terracini commenterà, cosi, molti anni dopo il risultato socialista la Costituente: «Nella mia vita ne ho visto di cose: ma quella è stata la più incredibile delle sorprese»; cfr. G. Tamburrano, Pietro Nenni, cit., p. 215.
20. Nelle sue memorie Romita accenna, tra l’altro, ad un progetto di rapimento 4 parte di estremisti monarchici; cfr. Dalla Monarchia alla Repubblica, cit., p. 48.
21. Ivi, p. 16 1.
22. Ivi, p. 167.
23. A.G. Ricci, Aspettando la Repubblica, cit., p. 212.
24. Romita comunicò dati ancora parziali (mancavano 1.200 sezioni su 35.000): 12.182.855 voti alla repubblica contro 10.362.709 per la monarchia. Il 18 giugno la Cassazione diede quelli definitivi: 12.672.767 per la repubblica e 10.688.905 per la monarchia; cfr. A.G. Ricci, Aspettando la Repubblica, cit., pp. 212 e 214.
25. A. Sessi (a cura di), Giuseppe Romita. Una vita per il socialismo, cit., PP. 155-156.
26. Fonte: R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Il “Partito nuovo” dalla Liberazione al 18 aprile, Torino, Einaudi, 1995, p. 93.
27. In Campania il Psiup ottenne il 6,9% e il Pci il 7,4% contro il 34% della c; in Sicilia il Pci si fermò al 7,9% e in Sardegna i socialisti raggiunsero solamente l’8,8%; cfr. ivi, p. 94.
28. P. Nenni, Tempo di guerra fredda, cit., p. 226
29. Pietro Nenni così descrive la vicenda nel diario dei 24 giugno 1946: «La gestione della presidenza della Costituente si è conclusa questa sera con un aspettato colpo di scena. Il mio rifiuto non è servito a Romita, ma a Saragat. E questo non per una manovra di Saragat, ma per un eccesso di furberia da parte dei miei amici. Questi si erano messi in testa che De Gasperi da un lato e Saragat dall’altro mi spingessero alla presidenza per immobilizzarmi in una cornice dorata. E hanno fatto il ragionamento infantile dei rovesciamento dei gioco. Non hanno pensato che il prestigio personale di Saragat uscirà rafforzato dalle sue nuove funzioni. ( …) In tutto questo chi ci rimette è Romita il quale invece merita dal partito una manifestazione di cordiale solidarietà e amicizia»; Pietro Nenni, Tempo di guerra fredda, cit., p. 234.
30. I socialisti ottengono altri tre dicasteri: Nenni agli Esteri (dal 18 ottobre 946), Morandi all’Industria e Commercio e D’Aragona al Lavoro e Previdenza sociale.