U santé du Ribèlle. Guerra e Resistenza nella poesia di Giovanni Rapetti. Di Franco Castelli

Un paese di contadini – poche centinaia di abitanti – sulla sponda di un fiume, messo in versi dialettali da un poeta scultore: così si può sinteticamente descrivere l’operazione intrapresa da Giovanni Rapetti relativa al suo luogo natale, il sobborgo alessandrino di Villa del Foro. Un’operazione iniziata nel 1973 e oggi ancora in progress. Più di mille poesie che in distici endecasillabi formano un grande, fluviale poema epico (Tani River, come qualcuno l’ha definito) sulla storia, la memoria e la visione del mondo di una piccola comunità (*).
Motore e perno dell’opera rapettiana è ra Sucietà dra Vila, l’ultracentenaria SOMS del paese, società operaia e contadina che da ente mutualistico e centro aggregativo vivo e vitale si è trasformata negli ultimi decenni in ritrovo dei vecchi, luogo quasi sacrale di memoria, mito e simbolo di un universo culturale che, pur in via di estinzione, tenacemente rilutta all’omologazione. Un ridotto contadino dove resiste una Memoria ribelle, insomma, di cui Rapetti si è assunto con passione (e sofferenza: ma la radice etimologica coincide) il ruolo di custode, sacerdote e sciamano.

Occorreva un censimento dell’idea di Società, dei Soci vivi e defunti, la storia di ciascuno e di quell’idea nella memoria collettiva.

Così, dal ’74 ad oggi, si è venuto sviluppando questo progetto totalizzante e davvero insolito di “autobiografia tribale” e/o di “anagrafe storico-antropologica” della cultura di una comunità, passando in rassegna non solo gli abitanti (i vivi e i morti) con le loro storie, ma anche i miti e i riti del mondo contadino, le parole e le cose di quell’universo, le opere e i giorni, le stagioni, i mestieri, le case e le cascine, le strade e i cortili, i campi le vigne e i pozzi, gli animali domestici e quelli selvatici, erbe ed insetti, i venti e le tempeste, le lune e le stelle.
Tema saliente e dominante, nella poesia come nella grafica dell’autore, il lavoro in quanto effettiva dominante nell’esistenza dei subalterni, realisticamente raffigurata come un tessuto continuo di fatiche, miseria, sfruttamento e ingiustizie. In centinaia di liriche, sono i ricòrd dl’azu da sòma a venire raccontati e rievocati, ed è quindi ra stòria der fadeji a venire alla ribalta, senza mai concessioni all’oleografico, con un piglio asciutto e ruvido, con una partecipazione umana e artistica in cui la pietas del poeta si sposa alla passione e all’ideologia dell’intellettuale militante.
Se a prima vista l’ opera rapettiana pare un “mondo dei vinti” in poesia, a ben guardare si coglie come sia diverso il segno che la contraddistingue: i suoi protagonisti, infatti, sono sì gli sfruttati, i poveri diavoli, ma non sono gli “umili” di manzoniana memoria, perchè i vari Pipòtu ‘r miradur, Gianen dau Rògg, Scarpa er pòver, Fiuran, U Siriu e via enumerando, non sono degli umili, ma degli indomiti: contadini e operai, militanti politici di base e “lingere”, anarchici individualisti e obiettori di coscienza, partigiani e sindacalisti come l’operaio Pietro, che per protesta sale sulla ciminiera della Borsalino negli scioperi del ’61.
E’ così che nella poesia di Rapetti si trascorre dalla memoria delle offese subite dai subalterni al mito del Ribelle: bandito galantuomo alla Robin Hood come Majein dra Spineta o Pulaster, o semplice contadino che si oppose ad un sopruso, rifiutò la violenza militarista (come disertore o autolesionista), contestò le regole imposte dal prete, dal padrone o dalla dittatura.
Le radici di quella scelta – che non è soltanto poetica – sono del resto parte integrante del vissuto familiare di Rapetti, che così li esplicita:

Una madre contadina, un padre muratore, manovale tutta la vita. Uno zio prigioniero nella Grande Guerra, impazzito per fame; un altro zio, muratore, antifascista e perseguitato politico. Non potevo non prendere la parte di questa gente.

Amministrare le memorie dei morti, soprattutto dei più poveri e bisognosi di giustizia (i sagrinà), di quelli che non hanno mai avuto voce propria per difendersi: questa “la parte” che il poeta si assume, recuperando con impegno etico e civile la figura arcaica dello storico-vate. Così Rapetti canta/conta la rabia di sagrinà: e non è un caso che il gruppo di giovani villesi scampati alla guerra, di cui fa parte, assuma proprio la denominazione di “Cunpania di Sagrinà”, sodalizio dionisiaco e informale che – simbolico erede delle medievali Compagnie dei Folli – organizza carnevali e bisbocce liberatorie, come l’autore scrive nel Prologo della sua opera prima Er fugaron (recitata nel Carnevale 1973 nella Società operaia del paese):

Quel riso che ci aiutava a scaricare la paura quando eravamo braccati, sospettati o temuti ma decisi a sopravvivere; quella identità che disperatamente mancava a noi fuori legge, mentre gli altri la trovavano aggrappandosi alle piccole cose della vita quotidiana, abitudini, lavoro ed affetti; quel riso e quella identità che noi trovavamo stando insieme, magari esaltandoci in un coro di canzoni, tra i fumi del vino; quel riso e quella identità o simpatia di coloro che sentivano la vergogna di non far nulla per gli altri: erano il riso, l’identità, l’umanità che tutti cercavano di ricevere e dare, di ispirare con un sorriso che non avevano più ricevuto né saputo dare.
In questa cornice va vista la “Businà”, andata perduta, che noi “Sagrinà” componemmo e recitammo alla fine della guerra nel salone della SOMS di Villa del Foro.

A ben guardare, il filo rosso segreto del poema si può cogliere nella ricerca delle radici della Resistenza, senza astrazioni e senza retorica, in un puntiglioso lavoro di rievocazione dei personaggi, dei gesti, degli insegnamenti che nel corto raggio del paese hanno lasciato un segno, condizionando l’esperienza personale dell’autore, nato nell’anno stesso della presa del potere del fascismo: uno della “generazione tradita” insomma, che al regime seppe e volle ribellarsi, memore di quegli esempi familiari e paesani, con la rabbia dei vent’anni e la forza trainante dell’utopia.
L’autore, quando scoppia la guerra, è un ragazzo diciottenne. Un ragazzo con la testa piena di sogni di bellezza, pervaso dalla passione per l’arte e il disegno: la scultura classica, il Partenone, Donatello… Frequenta l’Accademia Albertina di Torino e i suoi maestri (Manzù e Casorati fra questi) ammirano i segni che traccia quel ragazzo scontroso dai capelli rossi. Ma le bombe spezzano crudelmente quei sogni. Nel novembre del ’42 viene chiamato alle armi: al corso ufficiali avrà modo di manifestare tutto il suo viscerale, radicale antimilitarismo. Per punizione viene mandato in Francia e mentre si trova al fronte francese, i suoi disegni migliori vanno in fumo sotto gli spezzoni incendiari che devastano l’Accademia (v. lettera di Manzù del 6.1.1943). Dopo l’8 settembre viene catturato dai tedeschi e internato in un campo di concentramento da cui riesce fortunosamente a fuggire, sei mesi dopo, evitando la traduzione in Germania. Riuscirà a tornare al paese nel febbraio ’44, portando nell’anima ferite difficilmente rimarginabili.

‘Mnì cà da ‘n uèra ‘t serchi l’òm che t’eri
cambià ra gèint e ’r mond, te, grami’r ceri…
s’t’ài vist ra Mòrt ant j’ogg… (726) (Tornato a casa dalla guerra, cerchi l’uomo che eri / cambiati le gente e il mondo, tu stesso, brutte cere… / se hai visto la Morte negli occhi…).

Rapetti non è un combattente: la violenza gli fa troppo orrore. La boria militaresca gli fa senso. E’ costretto a fare il “ribelle”, facendo violenza alla sua natura pacifista e contemplativa:

vent’ani, fè u ribèlle, l’anma creia (837, ant.89)

(vent’anni, fare il ribelle, l’anima grida).

L’esperienza della prigionia sotto i tedeschi in Francia lo ha segnato, tanto che stenta a parlarne e a scriverne: solo qualche brivido memoriale qua e là: il filo spinato, i cani, i riflettori, le incursioni aeree…
Villa del Foro è un paese di pianura, a pochi passi da Alessandria, piena di tedeschi, con una polveriera nelle vicinanze: scarse e quasi nulle le possibilità di lotta armata in queste circostanze.

L’è nèint ‘t posi fè tant quat pas da Alsandia
tudesc son dapartit, da que ‘n Finlandia
‘r paiz j’è na puvrera, ‘mzò stè ‘tèinta
ra gèint sat te s’i pèinsu o pèinsu nèinta?

(Non puoi fare molto, quattro passi da Alessandria / tedeschi dappertutto, da qui in Finlandia / in paese c’è una polveriera, bisogna stare attenti / sai tu se la gente ragiona o non ragiona?).

Comincia così, con altri del paese, la vita randagia del ribelle sbandato, tentando contatti con le bande di collina (gli autonomi di “Mimmo”), nascondendosi ad ogni segnale di rastrellamento, “vivendo da disperati la solitudine totale di chi morde e fugge per salvarsi la vita, in un mondo impazzito”.

Ma noi ticc disparà, na banda ‘d giuvu
‘s truvavu fin là ‘n mèz per nèint ch’im scuvu
quand ch’i curivu ‘r vuz di rastrelamèint
e ‘d nocc er Brigati Nèiri là ‘n van nèint. (65, ant.69)

(Ma noi tutti disperati, una banda di giovani / ci trovavamo là in mezzo alla campagna per non farci scovare / quando correva la voce dei rastrellamenti / e di notte le Brigate nere là non vanno).

j’ó cunzì ‘r stali e i fein, i fòs e ‘r rivi
me i sògn j’è ancur l’afan cme quand ‘t curivi…(446)

(Ho conosciuto le stalle e i fieni, i fossi e le rive / nei miei sogni c’è ancora l’affanno come quando correvi…).

Le cascine più lontane dal paese e dalle strade e i boschi in riva al fiume sono il rifugio preferito dei ribelli, ed è qui, mentre tutt’attorno esplode la violenza e la follia degli uomini, che si rinsalda il patto del poeta con la natura amica e si rinnova l’incanto dell’artista nei confronti del paesaggio fluviale, tante volte fissato in chine rarefatte e vibranti di poesia.

In pat tra me e u santé e ‘r fiù ch’is vantu
coi pes ant l’èua, con j’uzé ch’i cantu (…)
santé dra meditasion, sògn ‘d cui ani
d’amur, dra mòrt, fisanda l’èua ‘d Tani
spicè ch’u nasa l’òmi nov dar uèri
cuntèint du su, ‘d j’udur, ‘d ròbi sincèri… (660, ant.82)

(Un patto tra me e il sentiero e i fiori che si vantano / coi pesci nell’acqua, con gli uccelli che cantano…/ sentiero della meditazione, sogno di quegli anni / d’amore, della morte, fissando l’acqua di Tanaro / aspettare che nasca l’uomo nuovo dalle guerre / contento del sole, degli odori, di cose sincere…).

Per chi è braccato e si sente la morte sul collo, il sentimento dominante è, senza eufemismi, la paura:

Dra paura ‘d j’ampicà, turtiri, lagni
dra gèint con l’ogg nebià, i dèincc der cagni

‘d fanciòt vutà a ra mòrt con sul vèint’ani
perchè? da chi? ‘t la divu er rivi ‘d Tani? (…)

(Della paura degli impiccati, torture, lamenti / della gente con gli occhi offuscati, i denti inchiavardati / dei ragazzi votati alla morte con solo vent’anni / perché? Da chi? Te lo dicevano le rive di Tanaro?);

paura ch’im trovu là, pau fin d’j’avzein
terur ‘d cui bòia e di so spion sasen (87)

(paura che ci trovino là, paura fin dei vicini / terrore di quei boia e dei loro spioni assassini);

paura der speji, streji ch’it brancavu
cme ‘r rèi er pes, l’agguato, t’anganavu (996, ant.99)

(paura delle spie, streghe che ti afferravano / come la rete il pesce, l’agguato, ti ingannavano).

Ma oltre agli affanni e alle paure, quei mesi vissuti alla macchia vogliono anche dire scoprire la grande umanità di personaggi oscuri: contadini ospitali e coraggiosi come Lurèins dra chitara, Luigi dar Casen-ni Bianchi, pescatori, barcaioli e traghettatori come Bastian du Tripuli. Emerge in queste poesie, pervase da un felicissimo tono tra l’epico e il picaresco, tutta l’importanza della spesso dimenticata resistenza dei civili: una resistenza disarmata ma non per questo meno importante, essenziale anzi per consentire a quella armata di esistere e mantenersi.

Ci sono poi gli amici e i compagni caduti: le liriche dedicate a loro, ai ragazzi uccisi sui cigli delle strade o crivellati nel corso di un rastrellamento, o morti per un banale incidente nei giorni dell’insurrezione, sono le più tormentate e inquiete, agitate da una sorta di cupo rimorso, quasi il poeta si chiedesse perché loro e non lui.

I ricordi degli anni 1943-45 sono sparsi in tutta la sterminata produzione poetica di Rapetti, con maggior frequenza dal 1989 in avanti.

La cifra che contrassegna le liriche dedicate da Rapetti alla guerra e alla Resistenza è l’orrore della violenza:

Culpa? che culpa t’avi a ribelèti?
contra cui diaudemòni mnì sirchèti?
‘t scapavi, t’at scundivi, lur masavu
j’àn ancendià i paiz, i t’ampicavu!

(890, Er bucein dl’Amzanein)

(Colpa? Che colpa avevi a ribellarti? / contro quei diavoli-demoni venuti a cercarti? / scappavi, ti nascondevi, loro ammazzavano / hanno incendiato paesi, ti impiccavano!).

Una violenza che si fa fatica a raccontare:

Que ‘mzò fè ‘n pas andré sut ra viulèinsa
drèinta l’apucalis, ra resistèinsa
quintè i cavà sbandà, frì dar mitragli
‘r culòni di tedesc armi e bagagli…

(947, Iscrision funerarii der Cumitatu’d Liberasion dra Vila)

(Qui bisogna fare un passo indietro sotto la violenza / dentro l’apocalisse, la resistenza / contare i cavalli sbandati, feriti dalle mitraglie / le colonne di tedeschi armi e bagagli…).

Così come è difficile, nella poesia dedicata a un reduce dalla Russia, descrivere gli orrori di quella tragica ritirata:

Quintè ra frigg ‘s po nèint, ra fam, ra paura
i pé fasà ‘nt na quèrta, ‘r vèinter gnaura
pià ra turmèinta, ‘n tèra rutulava
curs di cumpagn, scrulèj ra fiòca, zrava… (590, Muda)

(Contare il freddo non si può, la fame, la paura / i piedi fasciati in una coperta, il vento mugola / investito dalla tormenta, in terra rotolava / accorsi dei compagni a scrollargli la neve, gelava…).

Così talvolta basta una sensazione fisica, un odore, che sale dal fumo dei falò contadini d’autunno, a dare concrezione poetica ai ricordi di un sopravvissuto dai lager nazisti:

Ra lèingua ‘t manca sèimp spieghè cèrt ròbi
j’udur ‘t pori vizè, ra vista ‘t dròbi…
Mariu pèrd ra memòria quand che ‘r quèinta
ra mèint as fèrma, ra paròla stèinta…
“Stalag 12 A”, furn crematòri
rivavu ‘d tit er rasi, ‘n masatòri
l’udur der puasi dra to vigna ‘t brizi
na fim dulciastra, ‘t sai manc te, ‘t ra vizi… (997, ant.76)

(La lingua ti manca sempre spiegare certe cose / gli odori puoi ricordare, la vista adoperi…/ Mario perde la memoria quando racconta / la mente si ferma, la parola stenta…/ Stalag 12 A, forno crematorio / arrivavano di tutte le razze, un ammazzatoio / l’odore dei sarmenti della vigna che bruci / un fumo dolciastro, non sai definirlo, te lo ricordi…).

La guerra disperde la gente ai quattro venti, la violenta, ne cancella l’identità. Questo senso di tragica rottura del vissuto quotidiano viene emblematicamente espresso ne Ra locomobile, una lunga composizione che mima abilmente un dialogo fra due pensionati, Biazein ferroviere e Pipeinoperaio d’una fabbrica di olio e sapone del vicino sobborgo di Cantalupo. La tranquilla vita del pensionato di ferrovia, ritmata dagli orari dei treni, viene turbata – si presume un giorno della primavera 1944 – dal passaggio di un treno misterioso, fuori orario (un treno che non dovrebbe esserci, dunque!), e solo nel finale, con espressionistico abruptus, l’autore ne svela l’identità, il tragico carico e l’orribile destinazione.

Che trènu ‘r fisa s’è savì ma au lindman
gèint rastlà da ‘cc fascista, ‘cc tudesc coi can.
“Jitèm” crijavu, ciamu “Mama”, “Signur”
sarà sì ‘nt i vagon, dar frigg coi sidur:
che fam e sèi anmà ’r bestji ij patisu
ch’is croju ’n tèra, ch’i cagu, ch’i pisu.
Ciflava er machinista: – Ajìt o gèint! – 

I fren mòrcc ant er rovi servivu a nèint.
Pianzivu ’r rutaji, er preji là ’vzen
U locomobile ciamava Biazein.
Savon-na-Germania, Biazein l’à razon.
E Pipein? Vagon ‘d car viva da fè savon.

(Che treno fosse s’è saputo solo l’indomani / gente rastrellata dai fascisti, dai tedeschi con i cani. / -Aiutateci!- gridavano, chiamavano Mamma! Signore! / chiusi nei vagoni piombati, freddo coi sudori / che fame e sete solo le bestie patiscono / che si coricano in terra, cacano e pisciano. / Fischiava il macchinista: – Aiuto, o gente!- / I freni che mordevano le ruote non servivano a niente. / Piangevano le rotaie, le pietre là vicino / la locomobile chiamava Biagino. / Savona-Germania, Biagino ha ragione. / E Pipein? Vagoni di carne viva da fare sapone).

Il Ribelle di Rapetti è uno che si oppone alla violenza (di ogni tipo essa sia) in nome di un ideale superiore, di libertà e di fratellanza. Purtroppo, quasi sempre, risulta essere un perdente. Eppure quel ‘sogno dei poveri’, quell’utopia di un mondo diverso e migliore, resta un obiettivo per cui vale lottare:

quand ch’u sarà sarà, nein è prufeta
miragi o verità j’è sul sa meta (1010).

(quando sarà sarà, nessuno è profeta, / miraggio o verità c’è solo quella meta).

Annamurà dra tèra ‘t pisti coi pé
‘mzò fèl pì gist ist mond, l’òm, scricc quancc papé
viulèinsa s-ciòd delit, ‘mzògna finira
nujaucc Ribèlli al savu e ‘vrivu dira...
Er mond l’è ‘n paiz sul, ‘ndò ch’ai stoma an tancc
Utupìa è ancur da fè, ra sità ‘d ticc quancc. (1010, ant.77)

(Innamorati della terra che pesti coi piedi / bisogna farlo più giusto questo mondo, l’uomo, quanti fogli scritti / violenza genera delitti, bisogna finirla / noialtri Ribelli lo sapevamo e volevamo dirlo… / Il mondo è un paese solo, dove ci stiamo in tanti / utopia è ancor da fare, la città di tutti quanti).

Dopo queste esemplificazioni, apparirà chiaro come Rapetti sia un poeta difficilmente classificabile dentro parametri convenzionali. Ve decisamente in controtendenza rispetto al lirismo e alla rarefazione quasi ermetica della poesia neodialettale italiana (da Biagio Marin e Guerra, Scataglini ecc.). Oltre ai suoi contenuti, anche il suo linguaggio (così chiuso e arcaico) e il suo stile (scabro, “rappreso”, risentito) appaiono ad un acuto recensore i contrassegni “di una caparbia volontà di testimonianza, dell’irreducibile rifiuto dell’eterna sconfitta del mondo contadino, e, per converso, di una fede nei valori più profondi e veri di un universo in cui l’uomo conserva, nonostante tutto, e ancora, intatta la propria dignità” (P.Zoccola, “Il Piccolo”, 24.5.94).

Per concludere, Rapetti potrebbe essere definito con una certa verosimiglianza non tanto un poeta della Resistenza, quanto un poeta della Ribellione. Una ribellione che non è solo nei contenuti, ma investe gli stessi strumenti espressivi.

Nel lungo, fluviale, interminato poema epicolirico di Giovanni Rapetti, anche la memoria, anche il dialetto usato sono forme di ribellione. Una memoria che vuol resistere al tempo, una scrittura dialettale che vuol dare un “monumento di parole” a chi ha sempre solo conosciuto i silenzi della storia, e i monumenti (o le lapidi) li ha visti solo post mortem, sulla propria tomba.

In questo senso la poesia di Rapetti, questa straordinaria Tani River, con la sua intensa partecipazione alle sofferenze degli uomini nel fiume della storia, si connota indubitabilmente come poesia civile e politica. E la sua ricerca poetica sì, ma anche storico-antropologica mi sembra proprio dar ragione a quanto esprimeva qualche tempo fa Andrea Zanzotto, uno dei più sensibili poeti contemporanei, affermando che “la poesia è sempre inserita nel cuore della storia. La poesia è la forma più aderente e vincente di storiografia”.

 

(*) Di ogni poesia citata si dà fra parentesi il numero progressivo dell’elenco relativo al Corpus poetico di Giovanni Rapetti; quando pubblicata nell’antologia Ra memòria dra stèila (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1993) segue l’indicazione ant. e n.progressivo dell’indice dei testi presentati nel volume.