“TANI RIVER”: il paese-paradiso di Giovanni Rapetti. Di Elio Gioanola
Presentando questo “poema totale” di Giovanni Rapetti, questa vera e propria Antologia di Tani River, ho avuto modo di insistere sulla coincidenza, nell’opera, di utopia e di in-topia, nel senso proprio di una straordinaria sovrapposizione di universo fantasmatico e di microscopica realtà locale, quella in via di scomparizione di Villa del Foro. Si ha davvero l’impressione che, quanto più il poeta, tematicamente e linguisticamente, vuole identificarsi col microcosmo del villaggio, tanto più lo solleva da ogni ancoraggio spazio-temporale, facendone un’avventura della mente, o la proiezione assolutizzata dei suoi fantasmi profondi. Succede come quando si guarda con estrema fissità un particolare realissimo, e questo finisce per decontestualizzarsi e perdere ogni aggancio col reale, trasformandosi in una specie di schermo allucinatorio. Questo ritengo sia un corretto punto di partenza per un’eventuale indagine critica sul mondo poetico di Rapetti, per evitare i rischi di una riduzione ai luoghi comuni del realismo, del quale davvero la poesia novecentesca non sa che farsi. E’ giustissimo certamente, sia detto a scanso di equivoci, ogni discorso portato sui contenuti realistici, sull’impegno ideologico e sociale, sulla testimonianza relativa ad un mondo che scompare, sulla ricerca di alternative alla invivibile realtà attuale, ma questo discorso, che molti hanno fatto egregiamente, non è sufficiente. Il valore di una poesia non dipende dall’essere una poesia di valori, almeno nell’epoca contemporanea. Se le figure e il linguaggio di Villa del Foro sono diventati, come lo sono certamente, alta poesia, ciò significa soltanto che si sono fatti compiutamente lingua personale, stile, forma dell’io dell’autore, come ha benissimo sostenuto Giovanni Tesio nel suo intervento di presentazione del volume. In forma perentoria e risentita Cesare Pavese, di fronte alle possibili riduzioni della sua poetica al “realismo” diceva: “Sono io il mio paese”. Credo che Rapetti possa dire la medesima cosa di sé e della sua opera. Da questo punto di vista, il dialetto di Villa del Foro, così ferocemente e polemicamente fedele alla diversità locale, così ancorato alla rusticità arcaica di un mondo esistente (nel passato) è una vera e propria lingua angelica, diventata compiutamente poetica proprio per il suo essere ormai scomparsa come parlato. Ogni poeta scava una lingua propria nella lingua d’uso, facendo del “parlare” un “dire” originale, ma Rapetti si è addirittura accaparrato un dialetto che nessuno più parla, anche se coincidente con una precisissima realtà storica, in modo da portare la sua originalità espressiva al livello più alto possibile, facendosi portatore di una “diversità” ideologico-sociale che coincide esattamente con la sua “diversità” di artista. Parlando poi della coincidenza di utopia e in-topia, accennavo alla ricerca del paradiso perduto: infatti il sogno di un mondo solidale e giusto, di un futuro libero dalla devastazione tecnologica, sul modello della mitica Società Operaia di Mututo Soccorso di Villa del Foro, coincide esattamente col sogno della patria antica della memoria, del mondo contadino scandito dai lavori e dalle feste e dal ciclico ritorno delle stagioni, dei sabbioni intatti di Tanaro, degli incantati giochi infantili. Leggiamo in Ra lis perpetua: “‘S pudijis rifè ra Vila an paradis / ra gèint, j’uzé, camp, muron, Tani e j’amis / me firm d’andè stè là, fè di babaciu/ cantè, mangè ‘r marèini, chichè u laciu”.Paradiso è Villa, o Villa è il Paradiso: per questo il cimitero di Villa è solo una specie di luogo del ritorno, una forma della trasmutazione del tempo incantato in eternità. Non a caso il testo si chiude sull’immagine emblematica del “succhiare il latte”. In L’utupìa dei Ribèlli leggiamo proprio: “Uteru ‘r pòst ‘do ‘t sòrti nov ‘d speransa / du teti u lacc d’in sògn dventà sustansa”. Il paese-paradiso, che tale è oltre tutte le connotazioni della fatica e del dolore e della sopraffazione, è utero e mammella, è la Madre da cui si viene e a cui si ritorna, è l’origine prima del tempo e della parola, il luogo in cui tempo e spazio non vigono ancora, dove non si muore più. Le radici della poesia di Rapetti affondano qui.