La sfida epica di Rapetti: poetare contro l’oblio. Di Giovanni Tesio

Pavese ha scritto nel Mestiere di vivere che il pregio estetico, l’essenza morale, la luce della verità non si possono comunicare e che le parole “ne esprimono solo uno schema”. E’ un po’ quanto ha ricordato la scrittrice georgiana Flannery O’Connor:”Non si può dire che Cézanne dipingesse delle mele su una tovaglia e aver detto quello che Cézanne dipingeva”.
Comunque stiano le cose, voglio qui dire subito che l’opera di Giovanni Rapetti spiazza, costringe a verificare sistemi di lettura più o meno collaudati. Nel caso della poesia dialettale, spinge a confrontare la verità di un percorso individuale con la veridicità di uno schema che è stato fissato didatticamente nella formula “il dialetto da lingua della realtà a lingua della poesia”.
Qual è dunque l’identikit della poesia che si dice neodialettale? Intanto l’attenzione alle poetiche europee e il confronto con la poesia in lingua. Chi fa poesia in dialetto oggi non parte dal dialetto per raggiungere la poesia, ma scopre il dialetto cercando la poesia. In secondo luogo la prevalenza dei dialetti marginali e decentrati, addirittura inventati, veri e prori idioletti. Quindi l’allontanamento dalla lingua massificata e stereotipa in vista di una nuova autenticità e natività che viene di dentro: il dire che si diversifica dal parlare, come sottolinea heideggerianamente Paul Ricoeur. Ancora, l’attenzione alla fonetica che non è di specie puristica, cioè non sta a salvaguardia di un processo di italianizzazione come poteva accadere nel primo novecento giolittiano, di fronte alla prima massiccia avanzata della lingua nazionale, ma dice il radicamento, la solidità del radicamento dell’essere attraverso la sua intonazione specifica. Infine, il cambiamento del pubblico che non vive più nel circuito breve dello stesso orizzonte antropologico, mentale, morale, pratico.
Se guardiamo ora a Rapetti, non tutto della sua poesia sta in questo pur sommario identikit, e fa bene Franco Castelli a rilevarlo nell’introduzione a Ra memòria dra stèila: “Rapetti ha scelto di calarsi integralmente in questa realtà popolare e in questa cultura subalterna, il suo ricorso al dialetto non può essere, come per molti altri dialettali contemporanei,”ultimo rifugio per una purità assoluta della parola poetica”.
E tuttavia si potrebbe dire così, semplicemente, che il dialetto diventato lingua della poesia torni a diventare lingua della realtà? Personalmente non credo. Rapetti spiazza rispetto all’identikit che abbiamo tracciato, ma non lo fa saltare. Nessuno, può infatti negare che quella di Rapetti sia un’operazione poetica di grado secondo.
Guardando un po’ più in dettaglio, il suo io poetico è la memoria di tutta una comunità, ma la memoria della comunità non si esprime che attraverso questo io: è lui che seleziona e che elabora, che sceglie e che interpreta e solo illusivamente può essere assimilato ad una registrazione magnetofonica. E’,insomma, la bocca di Rapetti a dire la bocca altrui. Inoltre è sì vero che il metro di Rapetti sia di origine popolare (bosinata e strambotto), ma esso è volto ad un uso originale e personale: risponde appunto all’intonazione che custodisce il radicamento. E ancora su altro potrei far leva: sul dialetto periferico di Villa del Foro o sull’attenzione spasmodica alla fonetica, così ben allineata al recupero di oralità e di vocalità cui ci hanno indotto a riflettere studiosi come Zunthor e come Ong ( per non dire, prima, di Bachtin). Poesia che, contro ogni ipoteca crociana (il testo poetico come solus ad solam, come silenzioso rito individuale), pretende di essere eseguita. Infine l’orizzonte d’intesa con il pubblico della sua poesia non è in Rapetti meno virtuale che in un qualsiasi altro poeta dialettale d’oggi.
La poesia di Rapetti non racconta la vita di una comunità nel suo fluire attuale, ma la memoria di questa vita. La voce di Rapetti si fa tramite delle voci radicate nell’esistenza collettiva di una comunità sociologicamente connotata e nulla della realtà circostante può essere percepito e compreso se non in quanto da essa veicolato. Ma la ripetizione (la rima baciata) ne fissa come un martello la profondità, la monotonia che ne scaturisce diventa iterazione ritmica, perfino ossessione, una forma di rito magico capace di evocare un universo ctonio.
Rapetti si muove entro un progetto totalizzante (quasi maniacale) probabilmente o potenzialmente infinito. La sua immersione comunitaria parte da un tessuto profondamente disgregato e protende attraverso la storia la sua utopia, corrispondendo all’angosciato appello di Simone Weil: “Ai nostri giorni la conservazione di quel poco che resta dovrebbe quasi diventare un’idea fissa”. Le sue sono parole dette dai vivi “pre i mòrt, prima ‘d scumpari” (per i morti prima di scomparire). In questo forte afflato di vitalità che non rinuncia al suo dire in limine mortis consiste l’energia miracolosa, la sfida epica di questa poesia. Mentre documenta di sé, documenta per sé. Ma documenta per tutti. Combattendo la sua lotta e resistendo per tutti resiste soprattutto per la poesia come tale.