La memoria come ribellione. Villa del Foro: un mondo salvato dalla poesia. Di Paolo Zoccola (Il Piccolo, 24 maggio 1994)

Là, nell’oriente quasi estremo, dove le montagne più si avvicinano al cielo, gli abitanti credono che una volta che avranno terminato di elencare tutti i nomi di Dio, l’universo avrà raggiunto il suo scopo e le stelle cominceranno a spegnersi, a una a una. La distanza del Tibet da Villa del Foro è veramente notevole, ma leggendo l’antologia poetica di Giovanni Rapetti, Ra memoria dra streila– pubblicata dalle alessandrine Edizioni dell’Orso, a cura della Camera del Lavoro e dell’Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea, con prefazioni di Salvatore Del Rio, Renzo Penna, Giorgio Canestri, e Introduzione di Franco Castelli- ho avuto come l’impressione di uno straordinario e puntiglioso e tenace lavoro che sembra voler dare compiuta espressione a un universo, intero anche se piccolo: quello di Villa del Foro.

Pazientemente, infatti, Rapetti, cui si devono dal 1973 a oggi, più di milla poesie, ha salvato e sta salvando dall’oblio non solo le figure dei suoi compaesani ma tutto un paese, tutta una cultura vicina all’estinzione, tanto da far pensare che egli stia combattendo una titanica battaglia contro il tempo, contro la civiltà del consumismo. E mentre Rapetti scrive, le stelle di questo universo si vano spegnendo, stanno scomparendo a uno a uno i parlanti quel dialetto alessandrino, rusticamente contadino, che non solo si contrappone alla lingua come strumento espressivo del mondo dei vinti, ma assume valenza polemica nei confronti dello stesso dialetto alessandrino, subito e adottato da molti parlanti della Villa in omaggio alla doinante cultura del capoluogo. Il dialetto che Rapetti usa nelle sue poesie è infatti quello usato dagli anziani della “Socità”, sconosciuto ai giovani, e malnoto anche alla generazione di mezzo. Una sorta di ridotto contadino, di ultima trincea; un gergo quasi da iniziati (Franco Castelli li fa ammontare a circa cento persone) o meglio, da assediati. Di questo chiuso e duro dialetto, che è insieme lingua e testimonianza, Rapetti ha fatto un raffinato strumento espressivo, perfettamente in grado di evocare le variegate tipologie di un mondo che la fame, il lavoro, la violenza, politica non valgono a umiliare e che conserva intatta insieme alla capacità di rielaborazione epica della propria storia, un rapporto non mediato col mondo della natura e in grado quindi di dare espressione anche alle più delicate note del sentimento.

Ma lo scultore – poeta di Villa del Foro, che ha conosciuto da vicino alcune delle più significative esperienze artistiche del nostro secolo, non può ovviamente fare a meno di portare sulla pagina il suo vissuto di intellettuale e, insieme, una sensibilità estetica affinata in officine culturalmente assai lontane da Villa del Foro. Il risultato è quello di una poesia in cui l’universo contadino trova sì compiuta espressione, ma da parte di un autore che non si limita a registrare nostalgicamente il passato perchè sente il vivo, il vitale, il direi furioso e orgogliosamente ribelle pulsare di esperienze che chiedono di essere testimoniate oggi, per quanto oggi valgono e non solo per quanto hanno significato in passato. Non quindi da un poeta contadino, nè da un contadino- poeta, ma da un intellettuale che nel dialetto porti intatta tutta la sua cultura. E’ questa la forza, ma anche in qualche caso il limite (occorre dirlo se non si vuol cadere nel solito soffietto elogiativo che tradizionalmente viene riservato ai poeti nostrani), della poesia di Rapetti che nel crogiulo del dialetto tenta l’esperienza non banale di fondere la propria cultura di intellettuale con quella del mondo contadino.

Un’ultima considerazione, Franco Castelli, alla cui benemerita sollecitudine si deve l’imporsi dell’opera rappettiana all’attenzione della critica più avveduta, nella sua mirabile Introduzione, dice cose bellissime sul parlare “scorciato”, “rappreso”, di Rapetti in cui pare di sentire la fretta, l’angoscia di affrettarsi a dire, a fissare prima che i colori si stingano, il multiforme dispiegrasi di un mondo che sta per scomparire. Sono parole illuminati, alle quali aggiungerei soltanto una riflessione su quel tanto di brusco, di risentito, di arduo, di burbera riottosità, che mi pare caratterizzare questi versi. Si tratta a mio avviso della specula stilistica di una caparbia volontà di testimonianza, dell’irriducibile rifiuto dell’eterna sconfitta del mondo contadino, e, per converso, di ua fede, nei valori più profondi e veri di un universo in cui l’uomo conserva, nonostante tutto, e ancora, intatta la propria dignità. E allora, come nella poesia che chiude il volume e gli presta il titolo, Rapetti può davvero chiudere, come annota Castelli, “con la coscienza di aver compiuto uno sforzo immane, ma di lasciare un monumento di parole”, e con lui anche noi possiamo sperare che, nonostante tutto, le stelle continuino a brillare.