La battaglia di Pertuso di Aurelio Ferrando Scrivia

Il saggio dedicato alla battaglia di Pertuso, scritto da “Scrivia”, il comandante della Divisione “Pinan Cichero” negli anni Ottanta è completato da una memoria inedita, sempre scritta da Scrivia, che ripercorre il percorso di formazione di Aldo Gastaldi Bisagno che di Aurelio Ferrando fu non solo compagno di scelta partigiana ma anche compagno di studi e di ferma militare. Di questa parte è riportato uno stralcio:

“Ho conosciuto Bisagno all’istituto tecnico industriale Galileo Galilei, in Genova, Corso Venezia, a 15 anni. Ho frequentato con lui il terzo e quarto anno di specializzazione e insieme nel giugno del ’40 ci siamo diplomati periti elettrotecnici.

Non ricordo nulla di particolare che lo facesse eccellere su gli altri; era un alunno normale, disciplinato. E’ sempre andato bene senza mai distinguersi fra i primi. Un tipo serio, regolare, più incline a preferire le materie tecniche. Sempre promosso, comunque, senza difficoltà. Più che per i successi nello studio lo ricordo per le sue qualità atletiche, la precisione, la disciplina.

Mi aveva colpito sapere che si alzava presto il mattino per raggiungere la scuola con una lunga camminata sulle alture di Genova. E lo ammiravo perché faceva canottaggio e riusciva bene.

Non ricordo fosse legato con qualcuno dei compagni di scuola più che con altri. Era benvoluto da tutti perché considerato un buono anche se non dava confidenza ad alcuno.

Già allora era taciturno e solo raramente partecipava agli scherzi ed all’allegria di una scolaresca sotto i venti anni quale eravamo.

Che fosse benvoluto e stimato lo ricorda il seguente episodio: già diplomati, nell’estate del ’40, ci trovavamo in quattro: io, lui, De Sio ed un altro compagno di scuola, al primo giorno di lavoro, assunti nella San Giorgio di Genova Sestri. Su quattro posti uno era di perito elettrotecnico, gli altri tre di disegnatori meccanici; fummo invitati a scegliere ed ognuno di noi avrebbe desiderato il posto di perito; bastò un’occhiata per lasciarlo a Gastaldi il quale nell’avviarsi al suo reparto ci salutò senza ringraziare. Ma nell’intervallo, riuniti per i primi commenti, ci mise un braccio sulle spalle e disse, naturalmente in genovese, «Andiamo a bere, ragazzi».

I nostri incontri alla San Giorgio furono rari. In uno di questi ci comunicammo la decisione di proseguire negli studi, iscrivendoci ad Economia e Commercio, l’unica facoltà, allora, per noi accessibile. Ma lui, con mia sorpresa, decise subito dopo per Ingegneria. Era un’impresa disperata perché in un anno avrebbe dovuto preparare la maturità scientifica. Questa per me è stata la prima dimostrazione del suo coraggio e della sua tenacia, di una forza di volontà caparbia. Non ricordo bene ma ritengo che per prepararsi con possibilità di riuscita dovette lasciare la San Giorgio.

Ci ritrovammo ai primi di febbraio del ’41 nei grandi, freddi, squallidi stanzoni del distretto militare di Genova. Gli universitari del ’21, “la classe della vittoria” erano stati tutti chiamati “volontari”. Meno Medicina.

Desiderava molto diventare alpino. Ci assegnarono al genio. Non ebbe alcuna reazione. E pochi giorni dopo sul treno per le nebbie di Casale, nella sporca, affollata, maleodorante caserma Carlo Alberto.

Fummo sistemati nella stessa camerata, frammisti ai richiamati, in una gran confusione. Soggetti ad ogni genere di lazzi che gli anziani non risparmiavano agli “studenti”, figli di papà, e noi due non lo eravamo davvero. Egli era indifferente a tutto. Aveva uno struggente ricordo della famiglia e lo trovavo spesso a scrivere lunghe, fitte lettere a casa.

Dopo qualche settimana fummo spostati in una piccola vecchia casermetta, nella compagnia “aspiranti allievi ufficiali”. Radiotelegrafisti. Lunghe inutili ore di istruzione nel cortile della caserma e molte ore chinati sul tasto del telegrafo per conseguire il brevetto di radiotelegrafista specializzato: 120 segnali morse al minuto. Era l’unico divertimento. Alla sera sempre insieme a calmare la fame in latteria, con la pagnotta del rancio e una grossa tazza di latte e cioccolata e quanto arrivava da casa da dividere fraternamente.

Dopo tre mesi caporali, dopo sei mesi sergenti in attesa del nostro turno per la scuola Allievi Ufficiali.
Sempre insieme, in una camerata un po’ più confortevole, in compagnia di una decina di altri allievi quasi tutti torinesi.

Lunghi mesi di attesa, qualche frequente licenza a casa, un po’ di istruzione alle reclute, la posta e ogni tanto gran festa per un vasetto di “pesto alla genovese” che ci mandava mamma Gastaldi per condire una strana pasta nera che chissà come ci riusciva di trovare. Molta noia e qualche canzone, per lo più ritornelli genovesi. La guerra sembrava un avvenimento lontano, irreale.

E finalmente ai primi di febbraio del ’42 alla Scuola Allievi Ufficiali del genio di Pavia. Caserma Menabrea. Un corso serio. Molto studio. Molta istruzione. Disciplina di ferro. Ci siamo ambientati subito, perfettamente. Naturalmente stessa compagnia, camerata, squadra. Bisagno era il più alto di statura, venne nominato capo della squadra e subito dopo confermato per merito. Eravamo alla frusta, ma soddisfatti, era una cosa seria e la facevamo bene.

È a Pavia che Bisagno rivelò qualità superiori alla media, nello studio dove primeggiava applicandosi con volontà, negli esercizi fisici per la sua costituzione. Ricordo il suo spirito di sacrificio in una lunga marcia di almeno 20 chilometri sotto il sole cocente di fine giugno, con un elemento radio di 20 chilogrammi sulle spalle e un grosso foruncolo sotto un’ascella a farlo soffrire ad ogni passo, senza un lamento. Nessuno di noi riuscì a fargli marcare visita e a sobbarcarsi il suo fardello.

Bisagno terminò fra i primissimi. Credo il terzo di tutto il corso, circa 400 allievi. La classifica ci consenti il diritto di scegliere la sede. il 180 reggimento genio di Chiavari, vicino a casa.

Sottotenenti di prima nomina, assegnati alla 2 a Compagnia, comandata dal tenente Lamia, un richiamato di Genova. Anche per risparmiare scegliemmo insieme una camera a due letti, a Chiavari, in via Garibaldi al numero due o quattro. E andavamo in caserma in bicicletta, l’unico mezzo possibile di locomozione. Ed i pasti consumati all’osteria del Santo, vicino alla caserma, per poche lire, per far quadrare il bilancio e non chiedere aiuti a casa.

Il tenente Lamia e tre giovani sottotenenti, io, lui e Frangipane, l’unico ufficiale effettivo. Fu presto una famiglia nella quale le reclute si trovavano a loro agio. E l’anima era lui, Bísagno, che a poco a poco, superato il periodo di ambientamento, prese in mano le redini del lavoro.

Si trattava di istruire reclute da mandare poi a rinforzare i reparti al fronte ai quali il nostro reggimento doveva assicurare gli effettivi. Non avevamo molto da insegnare. Il materiale era scarso e vecchio. Era un successo far prendere contatto fra loro due radio lontane pochi chilometri. I nostri ragazzi li preparavamo più marciando che insegnando loro le tecniche dei collegamenti fra i vari reparti, radio grosse e picco~ le, telefoni, fili, cuffie.

C’era più tempo per parlare, per seguire i problemi di ognuno dei nostri soldati che istintivamente si legavano di più a Gastaldi che non a me o a Frangipane anche se di lui eravamo meno severi. Forse perché anche se più severo, se richiedeva più rispetto e disciplina, dopo poche settimane si sapeva che quando Gastaldi era di servizio, ufficiale ‘Ai picchetto”, i cucinieri non potevano farsi la pentola a parte di caffè, con più ingredienti e molto zucchero. Lui più di noi si preoccupava che in cucina tutto funzionasse meglio, più controllo nella spesa, più cura nel sapere chi aveva più fame o più bisogno di fare un salto a casa. Il suo plotone correva di più, aveva meno soste, ma era certamente anche quello che contava di più.

A ben pensarci tutti ci adoperavamo per far star bene i nostri soldati, io e Frangipane eravamo meno severi, prendevamo le cose meno sul serio, ma il più benvoluto era lui, Gastaldi. Certo era perché lui era più vicino ai ragazzi, entrava dentro nelle cose, non si limitava a favorirne il rientro anche quando la porta della caserma era già chiusa.

E si sapeva che il nostro attendente Traverso, genovese anche lui, non sapeva come diavolo fare per lustragli una sola volta gli stivali, ed io di rimando per non essere da meno. E anche voleva loro bene più intimamente di noi perché era il solo, se ben ricordo, che li andava a salutare alla stazione quando a scaglioni, giovani ed impreparati, partivano per i reparti al fronte. E al suo ritorno, immusonito, gli sentivo una tristezza infinita e stavamo insieme per ore senza parlare se non a monosillabi. E in quella profonda malinconia maturava il suo odio alla guerra, la sua avversione all’inutile sacrificio, la sua intolleranza alla violenza.

E noi in caserma alla… [incomprensibile, n.d.r.]. Eravamo i più giovani ufficiali del reggimento ma di mandarci al fronte non se ne parlava. Eravamo efficienti, facevamo bene il nostro lavoro, eravamo utili alla caserma e ai nostri superiori. Non badavamo alle ore, noi. E così per il fronte partivano con i ragazzi, gli ufficiali anziani, i richiamati, i Iavativi”, con famiglia e tanti problemi per la testa, altroché istruzione e disciplina. Così andavano le cose allora, tutto a rovescio. Di questo si parlava con Bisagno. Della guerra lontana che si sapeva andar male. E come altro poteva andare? Con quella mentalità, con quei fuciloni, con quelle radio scassate che avrebbero dovuto andar bene sia nel ghiaccio che nel deserto.

Ma per noi di questioni tecniche si trattava e si parlava. Non di politica legata alla guerra e alle alleanze. Anche queste erano cose lontane. Tutto sommato non si sapeva bene perché si facesse la guerra e anche lui, Bisagno, non sapeva perché l’Inghilterra fosse maledetta, cos’erano le plutocrazie, il giudaismo, eccetera. E per quali vie e interessi eravamo coi tedeschi contro gli alleati. Ci erano antipatici quei tedeschi. Non solo per le arie di superiorità che si davano e perché spesso dicevano che contava di più un loro maresciallo che un nostro ufficiale superiore. E sotto sotto anche perché invidiavamo la loro efficienza. Ma tutto finiva in una generica ostilità, una sensazione sgradevole: non sapevamo bene cosa in realtà volessero oltre che vincere la guerra, non sapevamo di dittature e di campi di sterminio in piena efficienza.

E anche quando un giorno assolato, con il cortile della caserma fatto deserto entrò una carrozza nera, con tanto di cavallo a portar via il giovane sottotenente Buranello di un altro battaglione, che conoscevamo appena, sentimmo parlare per la prima volta di comunismo, di antifascismo. Comunismo? rivoluzione, sovvertimento, nemico della religione, sanguinario, null’altro.

Antifascismo? Beh, tutto sommato anche noi sentivamo di esserlo, sotto sotto. Tutte quelle aquile davano fastidio, quella superbia, quello snobbare l’esercito, non ci rendevamo conto del perché di questi… [incomprensibile, n.d.r.]. Questa milizia, tutti eroi, e fra noi dell’esercito correvano voci di fugoni al fronte, di parzialità, di primogenitura. Ma non ci chiedevamo cos’era in realtà questo fascismo, cosa poteva esserci al suo posto, cosa sarebbe potuto andare meglio.”